AL DI LÀ DELLE MONTAGNE, (2015) di Jiǎ Zhāngkē
Capodanno 1999, Fenyang. Tao, una giovane ragazza, è corteggiata da due amici d’infanzia, Zang e Liangzi. Il primo è proprietario di una stazione di servizio e destinato ad un futuro luminoso mentre il secondo lavora in una miniera di carbone. Tao sceglierà la sicurezza di Zhang e da lui avrà un figlio. 2014. Dollars, l’adolescente figlio di Tao vive dal padre dopo il divorzio, mentre Liangzi è colpito da un cancro. 2025. Dollars e il padre si trasferiscono in Australia, ma qualcosa non va e tutto si rimette in discussione. Impossibile definirne altre tracce, come impossibile per i protagonisti è oramai riconoscersi allo specchio (del cinema).
Mountains May Depart appare subito un film estremamente complesso, che trova nella sua stratificazione temporale la giustificazione formale a quei blocchi spaziali spesso trattenuti apparentemente astratti. Un’opera che tende a rimanere sottile, nella sua giungla di segni emotivi e che medita potentemente sul pericolo di perdere la propria etimologia. C’è l’angoscia dell’oblio, rappresentata magistralmente nel confine glaciale della crisi d’identità, di soppiantare il proprio sé con orgoglio, o con la tecnologia, o con qualsiasi altra distrazione per di evitare di essere fedeli a se stessi. Si ha sempre l’impressione di camminare su un terreno freddo e scivoloso, in una serie di immagini ibernate tematicamente e stilisticamente, in un film di tranquilli campi medi, lunghi piani sequenza e parole chiare, ma evasive. Sempre al limite tra rigore formale e distacco umano (in cui il gioco dei formati -4/3 per il passato, 1,88:1 per il presente, 2,35:1 per il futuro- sottolinea altresì l’impressione fugace della libertà “conquistata”) che rappresenta l’ennesima sfida di un Autore alla ristrutturazione razionale della conversione del proprio Paese, con una luciidità che impressiona ma che forse perde quei frammenti di drammatica evocazione (basti pensare allo straordinario e seminal Platform/Zhantai) che gli sono appartenuti, alla ricerca di un senso più completo.
L’ultima opera di Jiǎ Zhāngkē è uno squarcio di un quarto di secolo tra cambiamenti radicali, speranze, amori, delusioni e confronti con il loro destino. Un film che pare un incompiuto che sboccia nella sua rigorosa vitalità, nel suo essere continuamente provvisorio di tempi e di spazi, come le anime appena accennate dei protagonisti. Un realismo moderno che vira sempre più verso l’astrazione, quello di Jiǎ, tra cambi di formato e continue ellissi. E poi la dolcezza malinconica del tutto che scorre e ritorna, la circolarità tra apertura e chiusura. Laddove il momento gioca a mancarci, ecco che basta una canzone, tutto torna limpido e nitido. E squisitamente umano, in una danza sotto la neve. Un film rischioso, coraggioso e sentito che prosegue non solo un discorso sulla Cina contemporanea ma soprattutto un personalissimo percorso di ricerca dei rapporti umani un mondo alla deriva. Freddo e astratto come le montagne a fondo campo che continuamente riflettono le loro esistenze, essenziale come i campi lunghi in cui questi personaggi vagano a caccia del proprio senso attraverso i propri sensi, vitale come la lotta per i sentimenti che appare in ogni fotogramma, mai esplicitata come l’ansia che tutti proviamo nel momento di perdere qualcosa di importante, o addirittura noi stessi.
Erik Negro