MOONWALKERS (2015), di Antoine Bardou-Jacquet
Stanley Kubrick, chi era costui?”. Questa è, sostanzialmente, la domanda che si pone Kidman (Ron Perlman), agente della CIA, quando gli viene proposto l’incarico che dà il via all’intreccio di Moonwalkers, commedia folle ed eccessiva che è stata presentata nella sezione After Hours del Torino Film Festival. Un omaggio sincero e allo stesso tempo scanzonato ad uno dei più grandi cineasti di sempre, sul quale continuano a circolare storie ed aneddoti alquanto curiosi. Nella fattispecie, Moonwalkers trae spunto da una delle leggende urbane più affascinanti sul regista americano, ossia il fatto che sarebbe stato lui l’artefice delle immagini dello sbarco sulla Luna nel 1969, incarico ottenuto grazie a 2001: Odissea nello spazio (“Non si capisce una mazza, ma è spettacolare!”, dice un personaggio di questo film). Ed ecco che Kidman, un uomo violento e turbato – i postumi delle sue attività in Vietnam si manifestano sotto forma di allucinazioni – si ritrova a Londra, al fine di convincere Kubrick a partecipare a questa folle impresa. Peccato che, in seguito ad un equivoco, l’accordo venga stretto con due persone che con l’autore di Orizzonti di gloria non hanno nulla a che fare: Jonny (Rupert Grint, in modalità “non sono più l’amico di Harry Potter”), un manager musicale indebitato fino al collo, e il suo coinquilino fattone Leon (Robert Sheehan, il Nathan della serie televisiva Misfits). E così ha inizio una delle missioni segrete più assurde mai viste sullo schermo…
Come altri film presentati in After Hours (The Final Girls, February, The Girl in the Photographs), Moonwalkers è, innanzitutto, un’operazione guidata dalla cinefilia. Nonostante i contenuti e le atmosfere dissacranti, l’approccio di Bardou-Jacquet trasuda amore puro per l’opera Kubrick, con svariati omaggi, visivi e musicali, a gran parte della sua filmografia a partire proprio da 2001: Arancia meccanica, Shining, Full Metal Jacket e Eyes Wide Shut sono tutti chiamati in causa (i film antecedenti sono solo menzionati verbalmente, anche l’elemento legato alla CIA può far pensare, in certi punti, al Dottor Stranamore, in nome di una comicità caustica che evoca anche i Monty Python (inevitabile, per via dell’ambientazione e del periodo storico) e mette alla berlina il meccanismo cinematografico con brio ed entusiasmo. Rimane però qualche legittimo dubbio sull’efficacia dell’operazione al di fuori della cerchia degli appassionati di cinema in generale e di Kubrick in particolare, poiché il film, la cui sceneggiatura è alquanto elementare, per non dire grossolana in certi punti, si affida prevalentemente a gag visive e verbali la cui potenza è alquanto diminuita se si è neofiti (la battuta di Leon su Spartacus, per esempio, è praticamente impenetrabile se non si conoscono i retroscena della lavorazione del suddetto kolossal, che Kubrick finì sostanzialmente per disconoscere in seguito).
Detto ciò, l’energia comica del film è quella giusta, ed eventuali incomprensioni riguardo i sottotesti sono compensate dalla presenza di Perlman, la cui espressione granitica da vero duro è il perfetto contraltare alla follia che lo circonda, soprattutto nell’ultima mezz’ora, quando si passa al cinema vero e proprio. In quel momento, Moonwalkers smette di affidarsi quasi esclusivamente agli ammiccamenti e trova una propria identità, derisoria ed esilarante, una lettera d’amore ad un artista geniale e ad una delle più grandi imprese dell’uomo. Lì trova ciò che molti sostenevano – a torto – mancasse nell’opera di Kubrick: un’anima. Alimentata da droghe e manie omicide, ma pur sempre un’anima. Chissà cosa ne penserà la famiglia di Stanley…
Max Borg