MOONLIGHT (2016), di Barry Jenkins
Moonlight è il vincitore dell’Oscar al miglior film 2017. C’è un problema in quest’affermazione, e il problema è evidente e di facile comprensione: Moonlight non è un gran film. E queste parole non le dico perché non ho apprezzato Moonlight, film che subito dalle sue prime proiezioni (una delle quali include la Festa del Cinema di Roma 2016) ha diviso la critica in due, da chi accusava il film del quasi esordiente Jenkins di essere un’irritante e “facile” paraculata sulla diversità e chi invece è riuscito a vedere un’ammirabile ‘bildungsroman’, bensì perché è un film destinato a un grande ed enorme dimenticatoio. Per essere chiari, penso che il problema sia alla radice di una tendenza pericolosa dell’Academy – tendenza che con il bluff di quest’anno di Warren Beatty, a cui è stata consegnata la busta sbagliata (quella per l’attrice protagonista, Emma Stone per La La Land), causando un breve caos in cui non si capiva davvero chi aveva vinto, ha raggiunto l’apice del ridicolo e del prevedibile. Questa tendenza è quella di scindere il tecnico dal morale, così rendendo lampanti le distanze tra il culto dell’apparenza dell’istituzione degli Oscar e l’immagine cinematografica. E questa è una cosa che prescinde dalla qualità di Moonlight, che è discutibile ma che non attacco con così tanta ed evidente cattiveria come hanno fatto altri. Anzi, è un film utile da mettere in discussione sotto vari punti di vista e da non buttare subito giù semplicemente perché La La Land è un film oggettivamente più bello anche solo per ragioni prettamente tecniche.
Parto dal presupposto necessario che sfortunatamente chi scrive ha potuto vedere Moonlight solamente una volta, in lingua originale e privo di sottotitoli. Le mie capacità con la lingua inglese sono in realtà assolutamente buone, ma il film è costituito principalmente da dialoghi tra personaggi afroamericani la cui estrazione appartiene al “ghetto” e – e lo dico senza alcun razzismo, ovviamente – a volte lo slang e il dialogo possono risultare difficilmente comprensibili. Il film racconta la storia di un ragazzo afroamericano, appunto, che conosce solo il mondo direttamente in contatto con lui, ovvero un mondo in cui tutti hanno il colore della sua pelle, un mondo in cui il machismo regna sovrano. Chiron, questo il nome del personaggio, del quale seguiamo la vita attraverso tre reincarnazioni (l’infanzia, l’adolescenza e l’età adulta: ma sia chiaro che non ci troviamo di fronte ad alcun Boyhood, sono tre attori diversi), è il figlio di una madre inaffidabile e dipendente da crack ed è omosessuale. Vive un’enorme difficoltà nel vivere la propria omosessualità in un mondo in cui la sopravvivenza del più forte (il ‘survival of the fittest’ di cui parlano i Mobb Deep) sembra regnare sovrana. Jenkins decide di farci penetrare nell’esistenza problematica di Chiron senza dare agli spettatori un contatto diretto con la sua interiorità: l’omosessualità non viene sbandierata maldestramente come se venissero pubblicizzati i diritti LGBT e questo contatto tragico tra il protagonista e un mondo in cui vive un unico colore di pelle non è mai esplicitato, basta solo vedere le facce di chi circonda il protagonista per rendersi conto di questo cul-de-sac etnico. Insomma, la capacità di Moonlight di mostrare un occhio implicito, in cui la tragedia e lo strappo culturale sono invisibili e completamente in sottofondo, è sicuramente un fattore positivo nel film; come lo può essere anche l’approccio visivo, che pur essendo spesso spento e piatto, favorisce a livello fotografico una specie di mix coraggioso tra il romanticismo lisergico di Wong Kar-Wai e l’estetizzante colore sudaticcio dei videoclip rap. Insomma, è un film che si pone a metà tra una sfera sintomatica lirica e una più legata all’approfondimento culturale. Non è necessariamente un film che funziona per la sua intera durata e questo è principalmente a causa del suo soggetto: è sempre stato difficilissimo unire il racconto di formazione al racconto esistenziale, e nessuno forse è riuscito davvero a riassumere il dilemma dell’esistenza attraverso un singolo film e un singolo personaggio insieme alla galleria di volti che lo circondano – forse ci è riuscito Edgar Reitz, forse Werner Herzog con la lente distorta che è il suo Kaspar Hauser. Chiaramente, partire dal presupposto che quello di cui si vuole parlare è in realtà probabilmente una proiezione irraggiungibile di uno scopo imprefissabile fa male al film, sia alla sua realizzazione sia alla sua visione, ma è necessario anche per rendersi conto in che cosa il film funziona e in cosa no, e Moonlight sicuramente pecca nel rappresentare qualcosa di universale data la specificità nella descrizione del personaggio: nero, omosessuale, cresciuto nel ghetto, innamorato del proprio migliore amico, con una vita sessuale sul vertice della non-esistenza. Sono svariate le categorie in cui dovremmo immedesimarci, e lo sguardo extra-cinematografico che vede il film come un’operazione commerciale o politica, nobile nelle intenzioni ma forse un po’ ricattatoria nello svolgimento, per scommettere contro la parte più conservatrice della popolazione statunitense è un’ombra che rimane duramente costante e presente, in sottofondo. I vari momenti di pathos e tragedia che sono abbastanza prevedibili e lacrimevoli per un pubblico medio, la maggior parte dei quali sono filmati con tranquillità e sobrietà quasi tentando di nascondere l’inevitabile buonismo dietro una patina di buon senso visivo, lentamente diventano protagonisti di una storia non-storia in cui, nonostante i tempi lenti che aiutano ad essere cullati da Jekins, manca sempre di più la poesia. Il finale è anch’esso un non-finale: il regista mostra prima il gesto fisico di un dolce abbraccio tra il protagonista ormai cresciuto e l’amico da sempre amato ma che ormai è lontano da lui (interpretato dall’Algernon Edwards di The Knick: Andre Holland) e poi l’immagine pseudo-poetica di Chiron bambino che osserva la luce della Luna sul mare e poi rivolge lo sguardo al pubblico. Il ritorno all’infanzia? Una presa di posizione sul riconoscimento e sulla crescita di una coscienza attraverso il cinema, con la quale si torna a uno sguardo infantile? In ogni caso sembra davvero una conclusione poco culminante e molto affrettata, che aggiunge poco al film stesso e al cinema privando di significato lo sguardo in macchina, che da un po’ sembra andare di moda usato in maniera sbagliata (esempio illustre: Redivivo – The Revenant). Insomma, il film è pregno di una retorica politically correct nascosta sotto la pelle di uno stile inusuale poco verboso (che eleva il film rispetto ad altri risultati hollywoodiani post-Spike Lee, in cui il problema razziale è urlato fino all’irritazione e alla perdita di significato) ma incapace di nascondere i problemi evidenti che il film ha.
Basta per urlare alla follia la sua vittoria sul puro intrattenimento dell’impeccabile La La Land? Forse sì, forse no, ma il problema è alla radice. Un’abitudine dell’Academy che ho infatti sopracitato è quella di non far convivere l’aspetto tecnico con l’aspetto politico, o “emotivo”, tanto da risultare ridicoli nelle proprie scelte. Ricordiamo che l’Oscar, oltre ad essere un premio (spesso discutibilissimo), è un simbolo cinematografico che ha la sua importanza anche nello sguardo di chi non fa film “da Oscar” – ricordiamo la provenienza semantica del nome d’arte di Leos Carax, all’anagrafe Alexandre Dupont, regista francese che ha masticato il surrealismo e la Nouvelle Vague per tutta la propria vita prima di dirigere piccoli capolavori nel recente cinema francese. Un film che vince un Oscar è un film che vince una possibilità di rientrare nella Storia del Cinema. L’Oscar come miglior film, poi, è importante ancor più degli altri, perché sconfigge le categorizzazioni tecniche e si basa su una cosa considerevolmente più soggettiva e difficile da delineare in maniera esplicita e definitiva. Certo, il miglior film è una categoria che da sempre è stata opinabile (1999: Shakespeare in love), ma è assurdo che venga così tanto scissa da tutte le altre, e soprattutto scissa da ciò che rimane nel culto e nell’immaginario collettivo. Visto che gli Oscar si ostinano a essere premi sostanzialmente mirati per i film americani e inglesi, è necessario, in quanto simbolo, che premino film che nella storia del Cinema devono rimanere, anche soltanto come immagini-simbolo che vengono ricordate nella cultura pop e che diventano celebri almeno quanto il film stesso. Pure un film enormemente discutibile come Titanic ha giustamente vinto il premio in quanto film che verrà sempre ricordato da una generazione come manifesto sentimentale su tutti i livelli. Il problema di Moonlight è che non ha niente di tutto ciò, a differenza di La La Land, un film senza dubbio problematico ma che ha già una schiera di fan mica male a causa di una capacità non indifferente di incuriosire i più ignoranti nei confronti di un cinema vecchio, quello a cui si ispira ma a cui non attinge completamente. Chiaro, in una premiazione giusta a tutti gli effetti, e usando come esempio solo i film che hanno avuto minimo una candidatura, un miglior film ineccepibile sarebbe stato Silence o Jackie, una miglior regia su cui nessuno avrebbe avuto niente da ridire sarebbe stata quella di Pablo Larraín per Jackie, un miglior attore adatto sarebbe potuto essere Andrew Garfield per Silence, una miglior attrice Natalie Portman ancora per Jackie (ed è stata pure nominata) o Isabelle Huppert in Elle, migliori attori e attrici non protagonisti Tsukamoto in Silence e la Cotillard in Allied, la sceneggiatura originale sarebbe potuta essere quella di Ave, Cesare! e il premio per quella non originale sarebbe invece potuto andare al grandissimo lavoro storico di Jay Cocks e Martin Scorsese per Silence, il miglior montaggio sarebbe potuto andare a Jackie e le categorie tecniche sarebbero potute benissimo andare quasi tutte a La La Land, compresa la fotografia che ha in effetti vinto e meritato. Ma Silence è stato nominato soltanto alla fotografia (assurdo!), Jackie è rimasto a mani vuote proprio perché troppo acuto nello svelare le ambiguità d’America e La La Land, che a prescindere dai giudizi di merito rimane un film di culto definitivo, ha vinto abbastanza statuette da rimanere nella memoria dell’Academy, ma non il miglior film. Il miglior film è un ‘outsider’ a basso costo, un film “piccolo” come lo era il vincitore dell’anno scorso, Il caso Spotlight, che comunque per qualche motivo riuscì a buttare giù dal primo posto sia Mad Max: Fury Road, già film d’azione definitivo e vincitore delle principali categorie tecniche, sia Redivivo, film nullo e inutile che ha avuto altre statuette in categorie grosse (regia, fotografia, attore protagonista). Questo per quale motivo? È un motivo etico che separa l’Oscar dal suo unico vero scopo, quello di cristallizzare le immagini importanti del cinema commerciale per quello che sono: simboli, che magari prescindono la qualità cinematografica, ma rimangono nell’immaginario. Nel momento in cui Moonlight vince un attore non protagonista o una sceneggiatura nessun danno è fatto, ma il miglior film è il momento in cui si nota cosa va e cosa non va. Il bluff di Warren Beatty può sembrare solo divertente, ma a dire il vero ha solamente svelato l’imbarazzo dietro una decisione discutibile, e ciò lo dimostra alla perfezione il clamore per la vittoria di La La Land. Sembra che Hollywood e in generale quella fetta di show business legata ai Democratici e alla Sinistra voglia distanziarsi di più da Donald Trump e dal lato Conservatore e Repubblicano del paese, sfuggendo a minacciosissimi hashtag come #OscarsSoWhite nominando e premiando un film che invece è così “black”. Si deve andare contro l’establishment, pare, o almeno così ci insegna un poco flessibile establishment “altro”, quello dello spettacolo, che deve rappresentare la realtà e un punto di vista comune. Così a vincere, in risposta alle sterili polemiche dello scorso anno sui premi troppo “bianchi”, è stata una ribellione senza senso e non il mezzo che si vuole celebrare. Come se anche una vittoria di La La Land non fosse una presa di posizione politica: l’American Dream è una riflessione i cui proiettori vengono spostati dal futuro dell’America a un passato fatto di valori che non hanno più alcun senso e alcuna attuazione, il sogno è solamente una cosa che si ciba di se stessa e che cannibalizza le immagini del cinema. I simboli, volendo. Insomma, La La Land è un film in cui, in mezzo a un po’ di pessimismo nostalgico, vince un’esaltazione del cinema e dell’immagine anche abbastanza in linea con la politica degli Oscar. Ma nel caos autocelebrativo di una cerimonia mai così noiosa ed elegante, doveva vincerlo l’esplicitazione di un dramma implicito, con un grazioso bluff che non può fare altro che cambiare pure l’accezione comune e collettiva di Moonlight, degradandolo da film discutibile a film-simbolo di qualcos’altro, di una presa posizione politica e anti-cinematografica. E continuano le battute sui social, tra “ha vinto la la l’altro” e gli insulti a Moonlight, mentre passa quasi in sordina la vittoria come miglior film straniero di Il cliente di Asgar Farhadi, anch’essa una presa di posizione politica contro il muslim ban ma pure cinematografica considerata la sottovalutazione universale del cinema iraniano e l’assoluta qualità del film di Farhadi. Un premio che già di per sé può contrastare e mettere in secondo piano Moonlight con la sua importanza “sociale”, ma senza uccidere La La Land, con i suoi colori che ci inseguono ovunque e il suo amore universale, il suo cinema semplice, il suo linguaggio, i suoi “sciocchi che sognano”.
Nicola Settis