MONTEREY POP (1968), di D.A. Pennebaker
Il Cinema Ritrovato è, tra i festival italiani, forse quello che più rappresenta la passione sincera e completa nei confronti del cinema – un’arte che per alcuni è una vera e propria fede. Quasi sicuramente questa non è propriamente l’idea di cinema che il festival bolognese promuove da quando è nato più di 30 decadi fa, ma l’idea di base dell’intera organizzazione messa in piedi dalla Cineteca Lumière è quella di un recupero, di un restauro, di uno sguardo verso il passato. Non siano messe in piedi, però, critiche all’eccesso di nostalgia (o di apparenza di nostalgia), poiché il recupero nel passato più che un’operazione stantìa e cadaverica sembra essere una riscoperta di quello che, dal Novecento, può influire il terzo millennio e il futuro della settima arte. V’è sempre una ricerca di una rivoluzione, con la “riscoperta” come possibilità di creazione di un nuovo mondo omnicomprensivo per tutto il cinema: una ricerca continua della libertà nello studio dell’immagine. Oltre l’usuale sigla-tributo a Ghezzi con Because the Night di Patti Smith e le immagini di L’Atalante (1934), due giorni fa in Piazza Maggiore è stato proiettato in piazza La corazzata Potëmkin (1925), definitiva maniera con cui Eisenstein ha composto un urlo di prepotenza ribelle nei confronti di ogni Stato o Istituzione, preceduto dal prologo restaurato della versione originale, mai vista in sala dalle primissime proiezioni del film, di La rosa sulle rotaie (1923) di Abel Gance – entrambe le proiezioni con musica dal vivo. E prima di Monterey Pop, Thierry Fremaux ha commentato dal vivo le proiezioni di una serie di magnifici corti dei fratelli Lumière, riportando alla mente non solo le loro innovazioni ma anche la loro modernità di sguardo, la pura bellezza senza tempo percepibile già da qualcosa di appartenente al 1897. La nostalgia forse può essere considerata, e sotto certi punti di vista è difficile per noi non concordare, un motore triste per il cinema, che porta poco in avanti la settima arte preferendo lo scavare all’indietro, immobilizzandosi in un qualcosa di mortifero: ma Monterey Pop, grande documentario di D.A. Pennbaker, che ha presentato il film con grande emozione all’età di 92 anni, non è nato come operazione malinconica, è nato anzi come testimonianza del presente, capsula del tempo per comprendere una piccola grande rivoluzione musicale e umana. Si tratta degli hippies e della passione per la musica nata in particolare dopo la nascita del rock psichedelico e della fruizione della musica attraverso i dischi – e spessissimo si sente, al giorno d’oggi, la necessità di ripescare quell’estetica per cercare di replicarne la libertà, il pacifismo. E risuonano le urla antibelliche e volontariamente ucroniche della versione di Forman di Hair (1979), con quel bisogno profondo di andare oltre. Ora come ora, il film può sembrare un qualcosa di assomigliante a un ritorno in quell’epoca, proprio a causa dell’impressione di vera e propria esperienza e testimonianza non dissimile dalla sensazione che si ha con i documentari di Wiseman, e quindi ci può sembrare un tentativo di riportarci lì, a Monterey, in un festival che fu forse anche più influente di Woodstock. E la Piazza Maggiore con il suo schermo enorme e le sue potenti casse forse non può riportarci nei colori del pre-’68, ma può dare le parvenze di un concerto e, sì, perché no?, di un’esperienza vera e propria attraverso quel mondo.
Anche perché gli anni sono passati. Le cose verso cui ribellarsi non sono più le stesse, musica tipo quella degli Who e quella di The Jimi Hendrix Experience è diventata riflesso fantasmico di tempi lontani a causa della velocissima evoluzione della musica elettrica, e anche il cinema non è più lo stesso; ma, detto ciò, Monterey Pop riesce ad avere una certa importanza anche oggigiorno. Non perde la sua preziosità, anzi sotto certi punti di vista può diventare più importante come testamento duro e puro anche solo a livello semplicemente cromatico o spirituale. E poi il passaggio del tempo tramuta qualsiasi piccolezza in un qualcosa che può riecheggiare le esperienze personali degli spettatori, proprio a causa del culto che certi musicisti sono riusciti a ottenere ancora di più col passare del tempo, anche oltre la loro morte: ad esempio, mentre Keith Moon velocissimo e probabilmente sotto effetto di stupefacenti si diverte a muoversi come un pazzo suonando la batteria e Pete Townshend spacca una chitarra, gli Who si dedicano ad un’interpretazione violenta di una delle loro canzoni più celebri, My Generation (dall’album omonimo del 1965), e mi sono ricordato, vagando in ricordi personali che stranamente non sono svaniti, di quando, poco dopo la fine delle medie, sono entrato come tastierista in un’adolescenziale ed effimera band di cover rock e metal, e durante una sessione di prove, suonando la tastiera con le nocche, sono arrivato a sanguinare, al punto che la cicatrice sul dorso della mia mano destra è ancora visibile; o pure posso ritrovarmi a dover tornare nei miei ricordi con la sequenza del film dedicata al concerto meraviglioso di Otis Redding, una delle voci più incredibili del panorama soul/R&B afroamericano di tutti i tempi, che parte da Shake ma si tramuta presto in I’ve been loving you too long, una delle sue canzoni più emblematiche ed emotive, che mi ha rimandato alla mente il mio primo, puerile e insignificante tentativo di addentrarmi in una specie di cortometraggio, che iniziava proprio con la canzone del cantautore di Dawson, morto l’anno stesso del concerto in un incidente aereo. E nella piazza scorrevano gli applausi, gli sguardi degli spettatori rimanevano allucinati e ammirati dalla ricchezza dei colori anche negli sperimentalismi della pellicola, forse resi relativamente male dal restauro in DCP ma senza perdere troppo la propria importanza filologica vista la fedeltà nel riprodurre gli spasmi e le imperfezioni delle interferenze del 16mm, e qualcuno come me riconosceva qualcosa dal proprio passato, nelle urla incredibili di Janis Joplin o nel rituale erotico-esoterico di Jimi Hendrix che mima l’amplesso con un amplificatore per poi bruciare e distruggere la propria chitarra, o nelle intense cover dei Rolling Stones messe in scena dagli Animals o negli psichedelici siparietti dei Jefferson Airplane – “questa canzone è sempre stata la mia preferita”, “questa canzone sta nel mio film preferito”, “è la prima canzone che ho imparato alla chitarra”. L’ipnosi più assoluta giunge con il duetto conclusivo tra un percussionista e il musicista di sitar Ravi Shankar, compositore classico di brani chitarristici Indù, mostro tecnico imprescindibile e autore delle colonne sonore della Trilogia di Apu di Satyajit Ray: per un quarto d’ora abbondante, la sala era immobile, presa dallo stupore nel vedere la bravura del musicista nei propri virtuosismi, proprio come il pubblico (che include Hendrix stesso) dallo sguardo fisso, incredulo. Gli hippies forse non ci saranno più, e forse soprattutto non hanno proprio senso nel contemporaneo, ma la carica sessuale e anarchica delle immagini messe in scena da Pennebaker mesmerizzano, fanno viaggiare nel tempo, colpiscono le corde più profonde di chiunque abbia amato la musica dell’epoca, dai The Mamas & the Papas a Simon & Garfunkel fino a Big Brother and the Holding Company.
Se le cose più iconiche del film sono quasi sicuramente Jimi Hendrix con i propri eccessi di sfogo e di pulsioni egocentriche e carnali, Otis Redding con i giochi di luce attorno alla sua sagoma e le proiezioni lisergiche dietro il palco mentre canta la bellissima Grace Slick, anche il contorno, meno concentrato sulla musica e più sull’uomo, può costituire una vera odissea attraverso una galleria di costumi e comportamenti inimmaginabili nel mondo contemporaneo. Ma la musica prende sempre il sopravvento, e ci si chiede anche se sia possibile che il più elegante narratore Altman abbia visto il film prima di girare certe sequenze di Nashville (1975) rimaste nell’immaginario collettivo di tutti i cinefili. Tuttavia ci sono due cose di cui non c’è alcun dubbio: la prima è che il film sia stato rivoluzionario all’epoca, sia a livello documentaristico per la sua libertà, la stessa del cinema diretto europeo che ha poi costituito la base per la filmografia del succitato Wiseman, sia a livello tecnico, visto che le macchine da presa con cui il film è stato “ritratto” sono state create appositamente per facilitare il movimento e per costruire collage da vari punti di vista per ogni performance e ogni concerto, creando dunque una nuova maniera per inquadrare la musica, che ha condizionato tutto il “cinema musicale” di lì in poi; la seconda cosa è che è un film senza tempo, che può solo crescere con il passare degli anni. All’epoca era una descrizione dell’oggi, ma oggi è una descrizione dello ieri, lo ieri che interessa al Cinema Ritrovato trasportato nella violenza e nella creatività degli sguardi di oggi che vi penetrano cercando qualcosa, trovando forse qualcos’altro. Autonomia e flusso concertistico, comunità e applauso, sigarette e canne, urla e fischi: che sia possibile che Monterey Pop stia al cinema come il vero e proprio festival della musica pop di Monterey del 1967 (50 anni fa, precisi) sta alla musica della seconda metà del ‘900?
Nicola Settis