L’INNOCENZA – MONSTER (2023), di Hirokazu Kore-eda
Sta tutto in una questione di apparenze e punti di vista, lo straordinario ritorno in Giappone di Hirokazu Kore-eda dopo le deludenti sortite francesi e sudcoreane di La verité e Broker. Il punto di vista della madre sola magnificamente incarnata da Sakura Andō, quello dell’insegnante che da apparente mostro si ricontestualizzerà come capro espiatorio, quello del piccolo Minato che tornerà per una terza volta agli stessi momenti a cambiarne ancora una volta il senso, ma anche quello della (tutto fuorché) glaciale preside, quello di un padre alcoolizzato e violento, quello di un’intera società che si ferma alla superficie e sputa sentenze senza sapere nulla della realtà. Un incastro di divergenze e di depistaggi, di apparenze e di non detti, di (non) colpe e di verità contrastanti, di giri in tondo à la Rashomon che, fra un ribaltamento e l’altro, non possono che condurre fino al centro del gigantesco cuore koreediano, alla famiglia, ai legami umani, a un treno che passa mentre l’infanzia diventa adolescenza, a una tempesta che deflagra improvvisa nella notte. Ma anche alla scuola, al bullismo, all’amicizia, all’umanità, alla reciprocità, alle mancanze, ai sentimenti, all’elaborazione del lutto, alle problematiche quotidiane di grandi e piccini, alle atmosfere thriller e al whodunit che già ne Il terzo omicidio si mescolavano al dramma. All’ultimo e definitivo punto di vista, quello più imprescindibile e che tiene insieme tutti gli altri, quello dell’autore e della sconfinata umanità che da sempre riempie il suo sguardo e le sue messe in scena, quello di chi da sempre incondizionatamente ama e non giudica i suoi personaggi in tutte le loro possibili ambiguità, in tutte le loro possibili controversie, in tutte le loro possibili imperfezioni. È per questo che, per quanto per la prima volta dai tempi dell’esordio Maborosi Kore-eda lavori su una sceneggiatura non a sua firma, ma scritta appositamente per lui da Yuji Sakamoto conscio di non poter fare a meno del suo tocco nella messa in scena, Monster (traduzione letterale dell’originale 怪物, Kaibutsu, mentre il titolo italiano sarà L’innocenza), presentato come primo titolo del concorso principale di Cannes 2023 e già forte candidato a qualche premio, è forse il più koreediano in assoluto fra i lavori di Hirokazu Kore-eda. Un film – dedicato nel suo ultimo slancio di commozione alla memoria di un altro Sakamoto, il grande Ryūichi che ha passato i suoi ultimi mesi di vita a curarne le musiche – che mescola sapidamente le ossessioni di sempre del regista, le sue più classiche tematiche di riferimento, i suoi simbolismi più cari, il costante ricalibrarsi dei suoi dilemmi etici e morali, senza dimenticare di passare per l’omaggio ai suoi maestri, per l’evidente sospiro verso Akira Kurosawa del meccanismo narrativo “plurale”, ma anche per quella delicatezza ad altezza tatami (non casuale, in tal senso, che il film si apra letteralmente fra i fili d’erba) che fu già di Yasujirō Ozu, e su cui Kore-eda, già detentore di una Palma d’Oro per Shoplifters, da sempre impernia il suo cinema amorevole di famiglie e di bambini.
Solo che questa volta le famiglie non sono unite, ma sfilacciate, parziali, fatte di genitori soli (una madre dolce e apprensiva rimasta vedova dopo essere già stata abbandonata per un’altra dal marito e padre del bambino, o peggio ancora un altro padre manesco e totalmente incapace di empatia) e di figli che stanno crescendo nei loro differenti traumi e negli atteggiamenti dissennati dell’adolescenza. Come il piccolo Minato, che inizia a comportarsi in modo sempre più strano (le sparizioni notturne in cui ritrovarlo in una grotta, una scarpa mancante, i capelli tagliati, fino al momento in cui si lancia dall’auto della madre in corsa fortunatamente senza conseguenze), preoccupando la genitrice sempre più apprensiva fino a farle scoprire come i problemi nascano apparentemente dalle violenze subite a scuola dal maestro Hori, o come il suo compagno di classe Eri che viene apparentemente bullizzato e malmenato da tutti, prima in casa e poi a scuola, fino ad autoconvincersi di essere un mostro con impiantato un cervello di maiale. Ma «Chi è il mostro?» in questo Monster? Forse l’uno, forse l’altro, forse tutti, ma più probabilmente nessuno. Forse è un demone interno, forse è un’assenza, forse è un innocente maestro elementare che nel dubbio viene abbandonato anche dalla sua ragazza. Forse è una preside appena travolta da una tragedia, forse è un padre unico personaggio destinato a non trovare riscatto, forse è un locale che va a fuoco nella notte, o forse è solo un gioco, una carta sulla fronte e chissà quante altre destinate a essere portate via dal vento, mentre si costruisce insieme un proprio piccolo mondo in cui sentirsi finalmente protetti. O forse il mostro siamo tutti noi, che ci fermiamo a ciò che sembra, senza attendere di avere un quadro completo, senza concedere la necessaria fiducia alle persone. È, come si diceva, una questione di punti di vista, in una storia destinata a essere percorsa e ripercorsa, ricontestualizzata, ricalibrata, costantemente rivista nel triangolo madre-maestro-figlio e nell’amicizia segreta fra i due bambini, mentre la macchina da presa di Kore-eda si abbassa progressivamente alla loro altezza, entrando nelle loro verità, nel loro candore, nella loro dolcezza, nella loro innocenza, nella loro visione ingenua e poetica del mondo, e poi nel loro rendersi conto quasi improvviso di essere cresciuti. Ed ecco che, mentre ogni verità ribalta quella precedente, l’apparente inumanità si rivela senso di colpa e dolore, l’apparente faccia di bronzo si rivela pura realtà, l’apparente crudeltà si rivela gentilezza e premura, l’apparente dato di fatto si rivela fraintendimento, l’apparente gesto folle si rivela disperato altruismo. L’apparente dispetto si rivela condivisione, perché è molto meglio saltellare con una scarpa sola a testa che camminare tranquilli vicino a un vero amico (o forse anche qualcosa di più, anche se non lo si riesce ad ammettere) rimasto scalzo. Come a dire che la verità è sempre più complessa di quanto possa apparire, che ci sono sempre azioni sconosciute dietro alle reazioni, che le motivazioni sono sempre più profonde di quelle di chi punta il dito. Solo che a volte sembra di non poter dire a nessuno la verità, e quindi si finisce per mentire, per omettere, per nascondere, o magari per trovare un “colpevole” incastrato dalle apparenze da dare in pasto all’opinione pubblica nascondendo tutto il resto sotto al tappeto. Forse l’unico modo per proteggere e per proteggersi, per tentare di limitare il più possibile i danni, per poter cercare ancora un qualche barlume di felicità, in qualche modo.
Gira tutta intorno ai campi e ai successivi controcampi di un pugno di ripetuti momenti-cardine, la trama di Monster – L’innocenza. C’è l’incendio – «Hai bruciato tu l’hostess bar? C’era dentro tuo padre?» «L’alcool fa male» –, c’è lo scontro (realmente accidentale, ma lo si scoprirà solo al secondo passaggio) del naso di Minato con una manata del maestro Hori, c’è Eri chiuso nel bagno mentre Minato se ne va via, c’è un gatto morto in un’intercapedine, c’è l’incidente con la madre e ci sono le reali motivazioni di un momento di escandescenza. E poi c’è un vecchio tunnel nel bosco, c’è un vecchio vagone abbandonato in cui trovare rifugio, c’è un compito che passa di mano, c’è un accendigas, c’è la sala degli strumenti musicali, c’è l’arrivo del tifone con le sue cascate di fango. C’è il momento per trovarsi e quello per sentirsi abbandonati, c’è il momento per litigare e quello per fare pace, c’è il momento in cui soffiare poeticamente via il proprio dolore nell’imboccatura di un trombone e poi c’è quello in cui ritrovare il proprio amico pieno di lividi nella vasca da bagno e portarlo via, lontano dall’inferno che può essere il mondo, nel loro posto segreto e protetto. C’è lo strazio e c’è la tenerezza, c’è la convinzione errata e c’è il saper tornare indietro, c’è quello che sembra e quello che invece è. C’è l’apparente attacco che in realtà è una disperata difesa, c’è il reciproco proteggersi fingendosi aggressivi per evitare peggiori aggressioni, c’è l’apparente violenza di un bruto che in realtà nient’altro è che la premurosa gentilezza di un ottimo insegnante che ha a cuore la scuola e i suoi studenti di quinta elementare, interpretati rispettivamente dai giovanissimi e sorprendenti Soya Kurokawa e Hinata Hiiragi, al punto di accettare la gogna per una colpa mai commessa. E poi c’è l’insistita violenza domestica, fisica ma soprattutto psicologica, di un padre spostato, ci sono le regole (a)sociali del bullismo scolastico, c’è l’inusitata purezza del tempo passato assieme. C’è un continuo fuorviare e ricostruire, e c’è la necessità di non fermarsi alle apparenze, ma di scavare nel cuore dei problemi come unico modo per non scoprirsi prima o poi parte del problema. Fino a quando tutti i tasselli non torneranno definitivamente al loro posto in una verità che è la summa delle verità, e in un film che è in qualche modo la summa e l’evoluzione del percorso cinematografico di Hirokazu Kore-eda, tornato finalmente sui livelli delle sue opere migliori, tornato finalmente al più disarmante candore del suo sguardo, tornato finalmente a una straordinaria direzione di grandi attori di cui far emergere tutto il talento, tornato finalmente alla più straziata tenerezza dei suoi picchi emotivi, tornato finalmente alle stratificazioni e alle complessità che si nascondono sotto la sua apparente semplicità. Un cinema di esseri umani e di sinceri legami, di empatia e di sentimenti, di identità e di gentilezza, di una regia asciutta che non cerca fronzoli o particolari artifici visivi, ma sguardi, respiri, ambiguità, toni di voce, gesti pressoché impercettibili, trasporto, sincere emozioni. Un cinema prezioso, sublime, toccante, al contempo straziato e dolcissimo, con un cuore troppo grande per poterlo realmente trasformare in parole.
Marco Romagna