5 Settembre 2018 -

MONROVIA. INDIANA (2018)
di Frederick Wiseman

È in un certo senso uguale e opposta a quella affrontata in At Berkeley la traiettoria compiuta da Monrovia, Indiana, il nuovo e straordinario capolavoro con il quale l’ottantottene Frederick Wiseman torna a brillare ancora una volta, fuori concorso, alla Mostra del Cinema di Venezia. Se cinque anni fa, nel raccontare la principale università pubblica degli Stati Uniti, il grande documentarista partiva infatti dalla Terra e dalle lezioni per spingersi sempre più verso l’infinito dello Spazio, ignoto e (in)valicabile limite della conoscenza di quel puntino quasi impercettibile nell’universo eppure così pieno di dignità chiamato essere umano, qui le primissime inquadrature sono esattamente al contrario sul cielo e sulla forma insicura delle nuvole, mentre il finale chiuderà laicamente il cerchio rimanendo ben saldo e ancorato alla Terra, quella ricoperta di granturco così come quella dei camposanti, magari proprio nel momento in cui gli sguardi e le parole degli uomini tornano ancor più del solito verso l’alto, verso il misticismo, verso quel Cristo che non è certo un caso che apra e chiuda “il Verbo” del film ma non le sue immagini, né la sua filosofia illuminista, antropologica, materialista e rigorosamente scientifica. In un sostanziale ribaltamento dei significati delle più tradizionali iconografie però – ed è qui che il percorso torna a coincidere con la costante ascensione/coscienza di At Berkeley – in Monrovia, Indiana è il cielo a essere morte, quella sostanziale degli uomini di campagna che vagano per la loro minuscola contea persi in un provincialismo reazionario che il regista mostra con la precisione di un entomologo anche nei suoi lati più ridicoli, contraddittori e paradossali ma senza mai in alcun modo giudicare chi ha di fronte, mentre la terra, anche e soprattutto nella morte e in un funerale che, a memoria, Wiseman mai aveva affrontato così direttamente, è traccia, segno, ricordo, emozione inaspettata e finalmente sincera, e quindi vita. Forse eterna, molto più probabilmente no, ma senza dubbio degna di essere vissuta e poi rimpianta.

A diciannove anni di distanza da Belfast, Maine, dopo essere passato dalle accademie (anche parigine) di danza e dai locali di burlesque, dalla New York Public Library di Ex Libris, dalle palestre di boxe, dalle Violenze domestiche e dalla conservazione della cultura alla National Gallery londinese, il cinema di metodo e luoghi di Frederick Wiseman torna nella più remota provincia americana, quella di campagne, mucche e maiali, quella di balle di fieno e di casette tutte uguali eppure tutte diverse e personalissime, quella della piccola bottega del barbiere e dei negozietti che tentano di resistere all’avanzare dei supermercati. Quella di Monrovia, Indiana è un’America circoscritta di continue assemblee, di piccoli assembramenti e di costante chiacchiericcio, in cui ogni rampa, panchina o idrante diventa un caso di (micro)Stato. È un’America contemporanea eppure fuori dal tempo, in cui l’asfalto c’è ma ancora passa in mezzo ai campi e alle preghiere dei cowboy ormai convertiti o quasi ai cani. È un’America di spazi e di verde per molti versi pura e primigenia, antica e radicata nelle tradizioni, cordiale e orgogliosa, ma è anche, nel suo sostanziale chiudersi senza saper volgere lo sguardo un solo centimetro oltre i confini della minicontea, l’America che Wiseman da sempre ripudia e che di sicuro non auspica, quella più “piccola”, coatta, grezza, egoista, superficiale, ignorante, incoerente, conservatrice ben oltre il reazionario e per più versi retrograda nelle sue frasi fatte e apertamente destrorsa nella sua sostanziale (neo)Trinità Dio/patria/famiglia, magari declinata fra il mito per le armi e gli eccessi per il cibo fritto oppure in una celebrazione del matrimonio talmente cristiana da finire per declinare le proprie simbologie in una sorta di rito pagano. È un’America imbolsita, cieca, bigotta, egoista, mediocre, talmente autoreferenziale e (micro)nazionalista senza avere alle spalle un reale senso storico che, per trovare una propria epica e un proprio spirito di identificazione, anche a scuola deve necessariamente raccontare i successi degli sportivi nati a Monrovia perché probabilmente non ha altro a cui aggrapparsi. Per Wiseman, tuttavia, anche questa America poco amata costituisce al pari di tutte le altre una di quelle plurime e diverse facce che da sempre affronta e analizza con metodo e lucidità, e di certo al suo cospetto il suo più acuto e indispensabile studioso, magari impietoso ma mai superiore o giudicante, non ha mutato lo sguardo né la lingua filmica.

La macchina da presa e il microfono di Frederick Wiseman, come sempre attenti e pazienti, registrano e catalogano Monrovia, Indiana con la consueta discrezione e con la consueta etica di chi non si è mai interessato di assolvere o condannare, ma da sempre vuole semplicemente studiare e capire fra la “giusta distanza” e la centralità del montaggio, continuando sulla strada di quel prezioso e scientifico lavoro di mappatura (principalmente degli Stati Uniti, ma non solo) iniziato nel ’67 di Titicut Follies portato avanti per più di quaranta lavori. Fra le pubblicità di piombo di «Anche le ragazze sparano», la crudeltà insita nel commissionare l’operazione veterinaria che per pura estetica recide la coda a un bulldog, la (per lo meno per noi italiani) sconcertante pizza peperoni, salsiccia e ananas, i venditori di fumo omeopatici e quelli di materassi con disgustosi fluidi da mostrare ai potenziali clienti per convincerli della resistenza dei propri materiali a ogni possibile schifezza emanata del corpo, Wiseman osserva come sempre silenzioso e invisibile, lasciando che siano le discussioni comunali sulla necessità di ripopolare la cittadina e di rilanciarne l’economia costruendo altre 150 case a fare emergere gli accordi sottobanco e gli scambi di favore del Capitale, lasciando che sia la stessa insistenza ossessiva sulle piccole cose della quotidianità a dare l’immagine più pura di Monrovia e della sua realtà di minuscolo centro nella vastità degli Stati Uniti, lasciando che siano le stesse immagini sacre formate ogni giorno, fra citazioni di salmi e rosari che corrono per tutto il braccio, dagli aghi e dagli inchiostri del locale tatuatore magari proprio sulla pelle di chi ha appena finito di comprare le munizioni commentando soddisfatto la lunga gittata della nuova pistola, a mettere in luce tutte le contraddizioni e l’ipocrisia che vi abitano. Monrovia, (non) crocevia rurale del Midwest, conta appena 1400 abitanti spartiti fra le chiese e le friggitorie, e si conoscono quasi tutti. Le metropoli sono lontane, e con loro è lontana la frenesia della vita di città che inevitabilmente finiva per lambire e influenzare anche la quasi altrettanto piccola ma ben più variegata comunità di (In) Jackson Heights, parte integrante del Queens newyorkese e quindi simile nell’organizzarsi in comunità, ma non certo isolato (e isolabile) come la provincia dell’Indiana, sorta di cuscinetto fra il passato e il futuro ben al di là del processo industriale di lavorazione delle carni.

Rispetto alla Belfast, Maine in cui Wiseman era solito andare abitualmente in vacanza, e nella quale quindi nel 1999 sapeva grossomodo già chi e cosa andare a filmare, i motivi che hanno spinto il (più) grande documentarista verso Monrovia, Indiana sono da ricercarsi nel caso, nel fatto che il coreografo dell’esordio Titicut Follies fosse monroviano, nella curiosità verso un luogo probabilmente visitato in passato e rimasto impresso, ma in sostanza non ancora noto all’autore prima dell’inizio dei consueti mesi (questa volta 9 settimane in paziente attesa dell’istante e della frase significativa da cui far emergere la sostanza) e delle consuete centinaia d’ore di riprese dalle quali estrapolare uno dei suoi film più brevi e compatti, meno di due ore e mezza contro i minutaggi che spesso in carriera si sono spinti oltre i 240′, ma non certo per questo meno densi. Monrovia, Indiana inizia con la necessaria esplorazione dei luoghi e del campionario umano che li abita, con le nuvole e con i trattori all’asta, con le vacche e con i maiali da portare alla prossima fiera, con i campi e con le strade, con i ragazzi del liceo e con i “Discepoli di Cristo”, con i cartelli di benvenuto e con i centauri in giro sui chopper, con il patetico impappinarsi sui riti da parte della goffa loggia massonica locale e con le code nel negozio di liquori e nell’armeria, per poi passare ai tagli da marines ordinati del barbiere e alle improbabili orchestre di bambini che eseguono male I Simpson e La Pantera Rosa, fino al supermercato annesso al centro commerciale, così spersonalizzante nei lunghi corridoi e nell’incessante voce in diffusione che continua a decantare le “imperdibili” offerte speciali di giornata cercando di ingolosire la clientela, nel quale i sostanziali non-vivi di Wiseman, proprio come i non-morti del Romero di Zombie, si aggirano famelici e quasi spettrali con le loro voluminose pance portate in giro dai più imbarazzanti sandali o dagli stivali a punta. Ed è forse proprio lì, fra i pomodori pelati e i macinati confezionati e messi in bella mostra sugli scaffali, che il principale osservatore e cantore d’America Frederick Wiseman si ritrova ancora una volta con in mano tutto il senso della porzione del suo lavoro presa questa volta in esame, riuscendo (anche) a suo giudizio, come annunciato dall’assenza delle prudenti particelle “At” o “In” che il regista premette ai nomi dei luoghi quando non pienamente sicuro di averne colto ogni aspetto e stratificazione possibile, a sviscerare tutto ciò che c’era da capire, da mostrare, da analizzare e da restituire sullo schermo.

Monrovia, Indiana sono le continue assemblee in cui parlare ancora insieme per tentare di migliorare dall’interno e con la cooperazione di un’intera piccola comunità le politiche economiche e la qualità della vita locale, ma sono anche i silenzi, la quotidianità, i paradossi e le ironie, che Wiseman, in piena ottemperanza a quel metodo rigoroso e infallibile sul quale ha fondato tutto il suo cinema, hanno trovato solo al momento del montaggio, dopo chissà quante revisioni di tutto il girato, la forma del film e la definitiva impronta del suo autore. Un autore che mai interviene sulla realtà, ma che, legittimamente, si sente libero di suggerire in maniera implicita quale sia il suo pensiero attraverso la scelta e l’ordine delle parti montate per far emergere le più divertenti ironie e le più preoccupanti contraddizioni. È come sempre un excursus fondato sul rigore scientifico, quello di Wiseman, che continua nella costante e stratificata lettura sociale d’America affidata a una troupe di sole due persone (a fianco del regista, che da sempre si occupa personalmente della registrazione dell’audio, c’era anche questa volta lo storico operatore di macchina John Davey) giungendo all’astrazione e alla teoria dalla più pura concretezza del vero. E questa volta, pur rimanendo sempre saldo nel suo agnosticismo e nel suo materialismo che non faranno rialzare lo sguardo la macchina da presa insieme a quelli dei fedeli in preghiera, di fronte al funerale di una paesana il quasi novantenne regista finirà forse per la prima volta per pensare seriamente alla morte, trovando nell’ultima sezione di Monrovia, Indiana alcuni fra i momenti più malinconici, umani e paradossalmente vitali della sua eminente carriera. Non è certo un caso che «le tribolazioni» di Cristo e dell’uomo con le quali, durante una semplice messa, esordisce il fiume di parole di questo film, nel finale quasi cabarettistico del funerale diventino gli aneddoti quotidiani che riportano alla vita e all’amore, il tendere al cielo, all’infinito, alla negazione delle «afflizioni», alle canzoni tutti insieme prima di inumare, mentre lo sguardo di Wiseman rimane con chi non c’è più dalla chiesa fino al cimitero, dall’altare alla terra, fino a quella circolarità che non ritorna ai cieli iniziali, ma che proprio sulla Terra e nella terra trova il suo personalissimo infinito. Che poi è sempre quello, quello del metodo, quello dello sguardo, quello della pazienza, quello del suo cinema sublime, miracoloso, unico e probabilmente irripetibile, da cui non potremo mai finire di imparare e per il quale non potremo mai finire di ringraziarlo. Sempre in attesa del prossimo e fondamentale capitolo di questo unico grande diario di viaggio. Capolavoro dopo capolavoro.

Marco Romagna

“Monrovia, Indiana” (2018)
143 min | Documentary | USA
Regista Frederick Wiseman
Sceneggiatori N/A
Attori principali N/A
IMDb Rating N/A

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