Alpi Bavaresi, 1942. A Berchtesgaden, al confine con l’Austria, Adolf Hitler ha fatto costruire la sua residenza estiva, il Berghof, nonché il famigerato Nido dell’aquila, il suo personale rifugio alpino, situato in quota e accessibile con un ascensore scavato nella roccia. Un rifugio che il fuhrer in realtà non frequenta quasi mai, impegnato com’è a giocare con le sorti del mondo libero. Al Berghof dimora Eva Braun, la signorina Eva Braun, amante, compagna e infine moglie di Hitler, nei loro ultimi due giorni di vita. Nel silenzio indotto dalla solitudine, la donna danza nuda sui balconi dell’edificio, tra le nebbie fitte e impenetrabili, controllata a distanza dai soldati di guarnigione. Sta per arrivare Hitler, accompagnato da Joseph Goebbels, ministro della propaganda, e da Martin Bormann, segretario personale del fuhrer e capo della cancelleria del partito nazista.
Moloch racconta la “giornata particolare” di Hitler, dei suoi principali gerarchi e di Eva Braun nella fortezza bavarese. Una giornata vagamente spensierata mentre in Europa (e non solo) infuria la guerra, con il fronte orientale che per i tedeschi comincia a esser fonte di preoccupazione, esauritasi l’iniziale spinta offensiva della blitzkrieg. Moloch racconta la quotidianità del male che una volta tanto appaia e si sovrappone all’abusato concetto arendtiano della banalità del male, che pure trabocca dai dialoghi surreali e grotteschi che riempiono le ore trascorse da Hitler a Berchtesgaden. Dialoghi drammaticamente vacui, quelli tra Eva e il suo “Adi”, che nell’intimità della sua stanza si rivela un bambinone ipocondriaco, convinto di avere ogni genere di patologia diagnosticatagli dai suoi medici personali. I medici ti dicono ciò che tu vuoi sentire, gli dice Eva, svelando un’ovvietà. Soltanto io ti contraddico, continua la donna. Ed è una sacrosanta verità, confermata dalle stucchevoli manifestazioni di paggeria di Bormann e Goebbels, yes man ante litteram che assecondano in tutto e per tutto i deliri e gli sbalzi d’umore, le idee insensate e i cambiamenti di opinione del fuhrer. Il duce è un patrizio volitivo dalla mascella che sembra voler fagocitare ogni cosa, afferma Hitler evocando l’alleato. E invece no, è un’idiota che in Italia ha soltanto piantato alberi che creeranno un cambiamento climatico in Germania, rendendola più umida e di conseguenza ammorbandone la popolazione.
È una giornata particolare, si diceva, ma in realtà è una giornata normale, come quella reale trascorsa da Hitler al Berghof che ha ispirato il film e che fu documentata da filmati girati su pellicola Agfacolor. Ci si siede a tavola (Bormann non vuole che si parli di guerra e di fronte orientale), si pranza e poi si cena. Hitler va a letto, Eva Braun è con lui fino all’ultimo e la loro intimità è mostrata nei momenti più ridicoli e imbarazzanti: un inseguimento fanciullesco attorno al tavolo, lei che lo prende a calci sulle natiche. Sokurov mostra l’intimità di Hitler che tira uno sciacquone, un uomo in canottiera e mutande prima di coricarsi per la notte. L’indomani è ora di ripartire, e il fuhrer riacquista il suo atteggiamento e il suo abbigliamento marziale. Prima di salutare Eva, riflette sulla morte e sulla sua volontà di sconfiggerla. Ma Eva non ne è così convinta.
Con Moloch Sokurov inaugura la sua tetralogia del potere (che proseguirà con Toro, Il Sole e Faust) alternando momenti di cinema purissimo (la danza iniziale di Eva Braun) a dialoghi volutamente banali, sconclusionati, carichi di una gravitas insensata e surreale, che consentirono al film di aggiudicarsi il premio per la miglior sceneggiatura (firmata da Yury Arabov e Marina Koreneva) al cinquantaduesimo Festival di Cannes (1999). Il restauro presentato al trentanovesimo Torino Film Festival, nella sezione back to life che ha tentato, invano, di fornire pillole disconnesse di uno sguardo retrospettivo quasi del tutto trascurato, sinora, dalla nuova gestione post-Martini, ci ripropone un film desaturato fin quasi a sbiadire, come se il grigiore della nebbia in qualche modo penetrasse fin dentro le fredde stanze del Nido dell’aquila, per una versione in lingua originale che ricorda e testimonia la scelta originaria di Sokurov di doppiare gli interpreti, russi, con la voce di attori teatrali tedeschi (tra cui la Eva Mattes cara a Fassbinder e, soprattutto, a Herzog). La visione sul grande schermo fa rivivere l’originario intento visivo sokuroviano, travisato dai passaggi tv. Solo sul grande schermo, infatti, i totali e gli interni in campo medio restituiscono la giusta distanza dai personaggi, per uno sguardo che vuole essere immersivo ma contemporaneamente distaccato. In una fotografia opaca, quella di di Aleksei Fyodorov e Anatoli Rodionov, che richiama a tratti la pittura romantica.
Il Moloch era l’idolo a cui i Cananei, stando alle scritture dell’Antico Testamento, sacrificavano vite umane nella Valle di Hinnom nei pressi di Gerusalemme. L’olocausto biblico dopo alcuni millenni diventerà l’Olocausto moderno. Il Moloch che osserva e il Moloch che divora. Ma Hitler a un certo punto si domanda cosa sia Auschwitz, dopo che Eva Braun ha improvvidamente evocato il nome del campo di sterminio. E così, in Sokurov, il Moloch carnefice torna a essere il Moloch idolo e testimone. La quotidianità del male torna a essere semplice, drammatica, raggelante banalità.
Vincenzo Chieppa