È ancora una volta la dialettica, il principale centro nevralgico del cinema di Cristi Puiu. La parola delle conversazioni, ma anche quella che arriva dalla radio, dalla televisione, dalla musica, da concitate telefonate in cui magari non poter sentire le risposte dall’altro capo, eppure allo stesso modo perfettamente corali. Una dialettica che questa volta, in un film strutturato in quattro distinti episodi imperniati sul dialogo e concepiti per mettersi a loro volta in dialogo l’uno con l’altro, il grande regista e sceneggiatore rumeno iperstratifica in un costante contrapporsi non solo verbale, ma in ogni possibile senso linguistico. Non più attraverso quel francese con il quale tre anni fa, nel precedente e magnifico Malmkrog, Puiu aveva viaggiato nello spazio e nel tempo (rigorosamente ucronico, e senza in realtà mai uscire da una villa) per riuscire nell’impresa impossibile di adattare per lo schermo la filosofia di Solov’ëv, ma tornando sette anni dopo il ritratto di famiglia in un interno di Sieranevada all’incomunicabilità della Bucarest contemporanea – o, per essere più precisi, del 2020 in piene restrizioni Covid, da cui il titolo in numero romano MMXX, anno-chiave e in cui l’intera Europa si è inevitabilmente ritrovata in un momento di crisi nel quale non poter fare a meno di ridiscutere la sua Storia ed il suo senso. È per questo che l’autore, nel suo ritorno “a casa” e al basso budget dei primi lavori, mette in scena una Bucarest così ineluttabilmente smarrita nella vacuità delle sue parole. Una Bucarest, da sempre crocevia di lingue e popoli, ormai del tutto disorientata nell’insensibilità degli egoismi e nelle conversazioni senza nemmeno ascoltarsi, nelle (auto)narrazioni narcisiste di se stessi e nelle distorte percezioni della realtà, nelle ossessioni di ogni giorno e nel continuo confronto fra culture e idiomi (anche cinematografici, come vedremo) apparentemente antitetici eppure intimamente intersecati nella società e nel quotidiano. Per un polittico in quattro episodi, ognuno peculiare e del tutto indipendente per titolo e per stile di messa in scena, che per tre volte rimangono chiusi (magari per lockdown e coprifuoco) in una o poche stanze e si incentrano su personaggi della stessa famiglia, e poi al momento della quarta istantanea escono per la prima volta all’aperto per allargare lo sguardo verso la minoranze etniche e religiose, verso la comunità serba, verso quella cecena, verso i funerali ortodossi e gli effetti della criminalità organizzata dei vari Paesi. Verso quel legame ancestrale con la Russia forte almeno quanto la fascinazione per i dolci dell’Italia, e magari verso la bellezza mozzafiato delle donne moldave, già amanti di un mafioso locale, sulle quali ricamare (o forse inventare di sana pianta, chissà) i racconti erotici con cui ancora una volta autoincensarsi prima di virare sull’avventura.
Incredibilmente snobbato dai principali Festival europei, e poi giunto per la sua prima mondiale a San Sebastián, MMXX parte dallo studio della psicologa Oana in attesa del primo incontro con una nuova paziente, mentre diegetica risuona per la prima volta La Traviata e la sua Sempre libera, titolo che dall’aria di Verdi Puiu prende di peso e appone al suo primo capitolo. Del resto anche gli altri, rispettivamente Baba au rhum, Norma Jean Mortenson e ВОСьМОЕ ИЮЛЯ, pescheranno a piene mani dalla cultura popolare o per meglio dire dalle culture che si incontrano (o magari scontrano) permeando delle loro radici la società di Romania. Dalla Napoli culinaria del babà la cui preparazione il fratello di Oana mette al centro del mondo mentre la situazione attorno sembra precipitare, fino al sogno americano (o meglio, «il sogno rumeno, di Bucarest») di Marilyn Monroe – che poi a ben vedere è un incubo, come già magnificamente messo in scena da Andrew Dominik in Blonde – che si materializza in una carriera fallita, valutando mentre ci si infila la tuta protettiva prima di un turno in ambulanza se nella mancanza di ingaggi in Romania non sia meglio rilanciarsi come attori a Mosca tentando di recuperare radici ormai quasi dimenticate. Fino al cirillico di quell’Otto Luglio che la Chiesa Ortodossa Orientale ha consacrato ai Santi taumaturghi David Pietro e Fedronia di Murom, patroni dell’amore e del matrimonio concetti perfettamente antitetici (e quindi anch’essi perfettamente in dialogo) con il lutto, il senso di colpa e il doloroso interrogatorio su un traffico di prostitute, di bambini e di organi (che non certo a caso dall’est di provenienza viaggeranno verso il più ricco ovest di Belgio e Svizzera, proprio come arrivavano dall’Austria le direttive sorridenti quanto spietate e neocoloniali nello straordinario e quasi perfettamente contemporaneo Do not expect too much from the end of the world dell’altro grande rumeno Radu Jude, presentato solo un mese fa a Locarno) che l’episodio mette in scena. Un continuo procedere per contrasti, antitesi, antinomie, contrapposizioni, autoconvinzioni e parole al vento in cui nemmeno durante una seduta di terapia è realmente possibile concentrarsi per ascoltare un flusso di pensiero fatto di deliri egocentrici e delle continue (in)consapevoli menzogne in ogni singola frase di chi si ha di fronte, assolutamente convinto che sia impossibile nella vita avere mai sbagliato o essere mai stato inferiore a chiunque altro, e magari nel frattempo che ogni scandinavo sia necessariamente una brutta persona per un paio di rapporti di lavoro infelici vissuti senza mai uscire dai confini nazionali – «A volte mi sembra quasi di parlare un’altra lingua». Del resto nemmeno una potenziale tragedia come il ricovero ospedaliero della migliore amica di Oana, incinta e positiva, senza che il marito in quarantena con il Covid riesca a ottenere alcun tipo di informazione, suona a suo fratello Mihai come un qualcosa di più serio e urgente del suo dolce di compleanno, e pure il coniuge Septimiu, paramedico al quale sarà dedicato il terzo episodio di attesa del risultato dei tamponi con un collega in sala d’attesa prima di uscire con l’ambulanza, se ne disinteresserà del tutto perché troppo concentrato sullo studio per un esame che di lì a poco dovrà affrontare.
Il risultato sono due ore e quaranta di dialoghi fittissimi e di quasi ininterrotte divagazioni, per lo più in duetto ma in ogni episodio c’è almeno un’intrusione, con cui Puiu esplora la parola e la società, i rapporti interpersonali e i paradossi dei regolamenti pandemici, il ruolo storico e geopolitico di una Romania da sempre ponte fra Occidente e Oriente e storicamente sfruttata da entrambi, e forse proprio per questo, già da molto prima che la confusione pandemica ne amplificasse l’ansia e il dolore, così intimamente spaesata e atterrita nel tentare di guardarsi allo specchio per raccontare se stessa e confrontarsi con il prossimo. Incapace di comprendere gli altri abitanti di un Paese apparentemente privo di direzione e di discernimento, una Russia al contempo troppo vicina e troppo distante, un’Europa nominalmente unita e invece più che mai divisa nei razzismi e nel portare acqua ai singoli mulini di ogni Stato leader senza nemmeno tentare una visione realmente comunitaria, ma ognuno con il proprio personale punto di vista e con la propria differente lingua in cui esprimersi. Proprio come in MMXX, nella composizione dei suoi quattro resoconti filmici – che non sono esattamente quattro atti, ma quattro diversi momenti di una medesima sospensione sul crocevia della Storia che, nel suo chiacchierare magari distratto attendendo con pazienza il risultato di un (doppio, perché non ci si poteva fidare nemmeno del primo) tampone, è in realtà già pura azione cinematografica anche quando non “succede” nulla -, Cristi Puiu usa consapevolmente stili differenti e anzi opposti fra loro, trasformando in pura dialettica anche l’alternanza e l’accostamento fra il pianosequenza teatrale di mezz’ora e la camera a mano che invece spezza ogni istante, la ieraticità e il movimento di macchina, la perfetta unità aristotelica e lo specifico filmico del montaggio. Con Sempre Libera e Norma Jean Mortenson che si articolano ciascuno in un solo lunghissimo take di circa mezz’ora, come d’abitudine gestito da Puiu con un continuo andirivieni di panoramiche dall’unico punto di vista del cavalletto, con Baba au rhum che è al contrario un rapido rincorrersi di brevi e nervose inquadrature a mano, e con ВОСьМОЕ ИЮЛЯ che cerca invece un punto di sintesi, o forse un’ulteriore dialettica interna, passando dal camera car verso il parabrezza ai pedinamenti concitati dell’investigatore, e poi ancora all’interrogatorio centrale da filmare rimanendo il più possibile fermi ma sempre e rigorosamente con la macchina a mano, mentre la reflex cavallettata della polizia sarà in campo a registrare solo l’audio, oscurata dal tappo sull’obiettivo. Altri linguaggi che si contrappongono, a latere delle conversazioni fra i personaggi della nuova «human comedy» a episodi di Puiu, in una Babele apparentemente indecifrabile, e che invece per riuscire finalmente a riacquisire la consapevolezza perduta non si può più fare a meno di affrontare in tutte le sue antinomie. A costo di dover guardare in faccia il mostro, a costo di dover rievocare i ricordi più dolorosi, a costo di dover ritornare ai propri errori più funesti e alle proprie contraddizioni personali.
È per questo che tutti i personaggi contraddicono ripetutamente loro stessi, nello scorrere di MMXX. La Oana rigida professionista del lavoro, ossessiva e facile a deconcentrarsi ma perfettamente in grado di capire la psicologia di una persona in base a come risponde a un semplice questionario, ha comportamenti complementari e del tutto differenti rispetto alla Oana invece apprensiva e viscerale del privato, che da casa telefona freneticamente a tutti i possibili contatti per avere una qualche informazione sull’amica dall’ospedale. Il marito Septimiu, che in casa non vuole nemmeno ascoltare i problemi della moglie (salvo poi essere disposto ad accompagnarla dove vorrà), sarà invece tutt’orecchi per le vicende un (bel) po’ spaccone che gli racconterà il collega, fra kamasutra ustionati e grandi fughe per evitare le ritorsioni della criminalità fatta cornuta. Il disorganizzato e superficiale Mihai, che interrompe le sedute della sorella Oana e continua a fare battute fuori luogo mentre continua a pensare solo ed esclusivamente al suo babà, si rivelerà poi essere anche il tenerone che saprà farsi perdonare abbracciandola di cuore sul terrazzo nel momento del bisogno. E perfino il poliziotto titolare dell’indagine, il suo partner (forse amante di una donna dal marito suicida a Novi Sad, o forse è tutto un equivoco) e la madre disperata dell’ultimo episodio passeranno nei quaranta minuti loro dedicati per un’evoluzione psicologica e soprattutto emotiva ben chiara, mentre in attesa dell’inizio della funzione funebre ortodossa ripercorrono la colpa e la disperazione fino a ben oltre il limite della commozione, spingendosi dove non c’è più spazio per le parole, ma solo per le lacrime, per la comprensione, per lo strazio emotivo, per la sincerità di uno sguardo desolato e perso nel vuoto, per un rispettoso silenzio. Un ennesimo ritorno all’umano, forse l’ultimo barlume di umanità in una società arida, egoriferita e incapace di leggere il mondo, che è l’unica conclusione possibile per le riflessioni di Cristi Puiu, pronte a partire da quattro fotografie della contingenza pandemica per svelarsi, in una manciata di episodi, personaggi e location, come l’ennesima straordinaria speculazione a trecentosessanta gradi dell’autore de La morte del signor Lazarescu e di Aurora sulla società tutta, sulla Romania, sull’Europa, sulla cultura d’Oriente, sull’individualismo dilagante. Ma anche sulla dialettica, sull’incomunicabilità, sul non detto, sulla scrittura, sull’improvvisazione, sulla messa in scena, sulla forma, sul contenuto, sul tempo, sul lampante, sull’implicito. Sull’uomo, che per riaprire gli occhi deve necessariamente scrutare verso il baratro e tornare ad averne paura. L’ennesimo esempio fulgido e preziosissimo di un cinema, quello rumeno, che ormai da oltre un ventennio guarda irraggiungibile e miracoloso tutti dall’alto, capace meglio di qualsiasi altro di leggere e stratificare il contemporaneo, di smascherarne le contraddizioni, di costruire paradigmi e allegorie, e poi di usarli per demolire le ipocrisie del reale con la forza dell’ironia, della parola, della consapevolezza, dell’intima sofferenza. Dell’intelligenza di chi ha vissuto sulla propria pelle il passaggio dal regime alla democrazia, dal Blocco Sovietico all’Unione Europea, e in realtà sembra non riuscire a trovare così tante differenze. Solo tante anime smarrite nel caos, e un bisogno sempre più urgente e forsennato di umanità.
Marco Romagna