MISTRESS AMERICA (2015), di Noah Baumbach
No, non è un’altra stupida commedia americana, né tantomeno un indie: Mistress America è “semplicemente” il nuovo film di Noah Baumbach, regista e sceneggiatore classe ’69 capace sin dall’esordio di attestarsi come unicum nel panorama cinematografico non solo statunitense. La sua filmografia, da solo o come sceneggiatore per l’amico Wes Anderson, porta da sempre riconoscibilissimi tratti distintivi che partono da una spietata commistione fra sconfitta e sarcastica ironia per giungere a deliziose commedie garbate, che se da un lato anelano al Rohmer della tetralogia sulle stagioni, dall’altro riportano alla mente quello sguardo sardonico sugli Stati Uniti, New York in particolare, che già fu cifra stilistica del miglior Woody Allen. Ma lo stile di Baumbach non è mai limitato o derivativo, forte di una scrittura sempre in grado di strappare una sincera risata dinanzi alle difficoltà più insormontabili e di una messa in scena personale e coinvolgente, fatta di movimenti apparentemente assurdi nello spazio scenico, tormentoni, scarti temporali improvvisi e repentini controcampi. Quelli di Baumbach non saranno i film della vita, ma rappresentano una forma di intrattenimento intelligente e gentile, un cinema popolare che sa divertire senza mai scadere nella faciloneria o nella battuta stupida, e anzi sa affrontare con leggerezza le tematiche sociali e sentimentali di quel sogno americano dissolto come sabbia fra le dita della generazione precedente. Insomma, il cinema di Baumbach è sempre stato un ottimo modo per passare un’ora e mezza leggera ma non troppo ed uscire dalla sala con un gradevole sorriso amaro, e fortunatamente Mistress America non fa eccezione.
Se nel precedente While We’re Young (titolo italiano Giovani si diventa) Noah Baumbach aveva voluto mettere in scena una sorta di conflitto generazionale fra trentenni e quarantenni, per Mistress America decide di accorciare il tiro, affrontando lo scarto fra i venti e i trenta. Protagoniste sono Lola Kirke (che di anni ne ha 25, ma risulta perfettamente credibile nei panni della timida matricola diciottenne Tracy) e la storica musa baumbachiana Greta Gerwig, anche co-autrice (come già nello splendido Frances Ha, 2013) della sceneggiatura. La trama è semplice, classica e lineare: l’arrivo a New York di Tracy, il suo sogno di diventare scrittrice, la sua impacciata ingenuità di diciottenne campagnola dinanzi alla grande città e all’università. Dall’altra parte, la sorellastra trentenne Brooke, il suo agio nel folle rutilare della grande mela fra locali, palchi e danze sfrenate, ma anche i suoi continui fallimenti, divisa fra l’entusiasmo per le buone idee e la mancanza di costanza e fondi nel portarle a termine. Mistress America è il racconto di un’amicizia quasi impossibile in una serie di piccole e fallimentari avventure, tra fraintendimenti, piccoli egoismi e improbabili alleanze. La narrazione fila liscia e gradevole, ma a colpire è come sempre lo sguardo unico del regista. Uno sguardo a metà fra il cinismo e la tenerezza, in grado sì di far emergere tutta la meschinità dei protagonisti, ma avvolgendoli in un caldo e tenero abbraccio. Quello di Baumbach è infatti un cinema al contempo spietato e affettuoso, sardonico ed emotivo, triste e spassoso. Estremamente acuto, abile a insinuarsi quasi fantozzianamente fra le pieghe di un tessuto sociale variegato e instabile, quella middle class ormai in frantumi che si ritrova a sperare in un ritorno agli antichi fasti per poi, immancabilmente, perdere.
Mistress America parla di sogni, di tradimenti volontari o meno, di fiducia, di egoismi, di amicizia. Il sogno della giovanissima Tracy, entrare in un prestigioso circolo letterario con il quale dare inizio ad una brillante carriera di scrittrice, il sogno della sempre giovane Brooke, aprire un ristorante in centro con il quale, fondamentalmente, ricrearsi una posizione sociale e diventare punto di aggregazione. In un rutilare di personaggi assurdi, scale antincendio, viaggi in automobile, equivoci, tentativi di seduzione, furti di idee o di parziali biografie, Noah Baumbach dirige una commedia divertente quanto puntuale su amicizia e solitudine in una New York sedicente e fagocitante, una New York profondamente ipocrita nel promettere e poi negare, una New York anch’essa fondamentale personaggio del film. Una New York quindi guardata -come i personaggi- con lo sguardo amorevole di chi la sente propria nel suo fascino decadente. Noah Baumbach ha trovato una formula personalissima, dove il piacere della narrazione incontra uno sguardo beffardo, fresco e vitale. Un intrattenimento intelligente, nel quale è sempre dolce naufragare. Perché, in fondo, “non siamo nati per essere così”, ma su questo schermo non possiamo fare a meno di riconoscerci.
Marco Romagna