MINATOMACHI – INLAND SEA (2018), di Kazuhiro Sôda, ovvero i Dieci Comandamenti per osservare e fissare su emulsione
Minatomachi – Inland Sea è il nuovo film di Kazuhiro Sôda, regista giapponese che ho avuto la fortuna di conoscere l’anno scorso al Festival dei Popoli. In quella occasione gli è stata dedicata una retrospettiva che ha fatto conoscere al pubblico fiorentino e a molti addetti ai lavori la sua filmografia di assoluto fascino e interesse, in gran parte inedita in Italia.
Sôda è un regista “strano”, non accademico e non intellettuale, molto pratico nelle questioni che esplora: ha lavorato come regista, autore dei soggetti e montatore per la NHK, TV giapponese con sede a New York, per la quale ha realizzato più di trenta brevi documentari per la serie “New Yorkers“. A conclusione di questo periodo ha deciso di sviluppare la sua libertà espressiva, elaborata e poi rivista e ampliata con il suo “decalogo”, una lista di “dieci comandamenti” che definiscono il suo modo, libero e radicalmente indipendente, di interpretare il documentario di pura e assoluta osservazione derivato dalla tradizione statunitense:
1. Niente ricerche
2. Nessun incontro con i protagonisti del film prima d’iniziare a girare
3. Non scrivere soggetti o trattamenti
4. Manovrare da solo la videocamera
5. Registrare più a lungo possibile senza stacchi o interruzioni
6. Coprire contesti circoscritti e in profondità
7. Non stabilire temi e obiettivi prima dell’inizio del montaggio
8. Nessuna voce narrante, né titoli in sovrimpressione, né musica.
9. Usare piani lunghi
10. Autofinanziare la produzione.
Nel 2005 Sôda fonda, insieme alla compagna Kiyoko Kashiwagi, la società di produzione LABORATORY X con la quale, due anni più tardi, realizza il suo documentario di lungometraggio, Campaign, primo degli “Observational Films“, serie giunta attualmente a 6 compreso il “fuori serie” Peace. In ciascuno di questi film Sôda filma sempre e rigorosamente da solo, in alcuni casi registrando anche il suono, in altri avvalendosi della collaborazione di Kiyoko al microfono. Solo alla fine delle riprese (che, salvo eccezioni, avvengono in una sola e unica fase senza interruzioni, al termine della quale inizia la postproduzione) Sôda inizia a riguardare in tempo reale tutto il girato. È un processo lungo, che può durare molti mesi o addirittura superare un anno. La serie degli “Observational Films” (integralmente presentata al Festival dei Popoli nella retrospettiva curata da Silvio Grasselli) compone uno straordinario “ritratto sociale” del Giappone contemporaneo, esplorandone il profilo autentico proprio in alcuni dei aspetti meno raccontati del paese, come il sistema politico “inquadrato” attraverso la finestra delle campagne elettorali, la condizione dei pazienti psichiatrici, il lavoro dei pescatori di ostriche nel Giappone post-Fukushima, la “nazione nascosta” dei disabili fisici e psichici. Il regista giapponese attraverso i suoi film compone anche una sorta di autoritratto, un diario raffinato del suo sguardo, della sua mente, della sua sensibilità. In tutti i suoi lavori entra in contatto coi suoi protagonisti, li segue, li filma e si diverte dialogando con loro. Questo nuovo Minatomachi – Inland Sea, a Parigi per Cinéma du Réel a poche settimane di distanza dall’apertura di Forum all’ultima Berlinale, prosegue il suo percorso in un Giappone poco conosciuto: racconta la vita nel villaggio di pescatori di Ushimado che sta soffrendo il normale invecchiamento della popolazione. Il film alterna le storie di ottantenni, quasi novantenni, che continuano a vivere e sopravvivere lavorando tutti i giorni: la macchina da presa “osservante” di Sôda incontra e fissa su pellicola le loro difficoltà, i loro momenti bui, ma anche la loro felicità, che nasce magari dal semplice quanto poetico dare da mangiare a un gatto.
Vediamo il signor Murata che esce ancora con la sua barca in mare tutti i giorni, vende poi il pescato al mercato locale dove lavora la signora Koso, che gestisce il “commercio” girando il villaggio ogni giorno nel suo furgone scassato e vendendo porta a porta il pesce fresco. Conosce le preferenze e le abitudini dei suoi clienti, come tutti i bravi commercianti, come tutte le piccole realtà, di cui Ushimado si fa paradigma. Il piccolo villaggio con i suoi anziani pescatori offre così il posto ideale per le osservazioni di Kazuhiro Sôda: il film è girato in un abbacinante bianco/nero e si forma come da solo, con l’incontro casuale con gli abitanti del villaggio che parlano e ascoltano, dicono al regista cosa riprendere, raccontano storie anche drammatiche, aspettano un incontro che forse non arriverà, semplicemente vivono. Minatomachi diventa così un ritratto di una generazione nata prima della guerra, che i cambiamenti economici e il degrado ambientale condannano all’estinzione. Sulle rive del Mare Interno del Giappone, dove Shohei Imamura ha girato due film, la popolazione sta invecchiando visibilmente. Il pesce pescato, venduto, mangiato è al centro dell’attività del villaggio, ed è il legame tra i bellissimi ritratti dei vecchi abitanti. La bellezza del cinema di Sôda è proprio questo: entrare con sensibilità in contatto con persone che spesso non abbiamo mai desiderato ascoltare, e rendercele necessarie. Il suo è un cinema di puro sguardo, di sensibilità, di astrazione che si fonda sul concreto, sul quotidiano, sul caso. Sull’umano, colto con occhio amorevole nella sua più assoluta sincerità. E proprio per questo è un cinema che non (ci) basterà mai.
Claudio Casazza