MIMOSAS (2016), di Oliver Laxe

La seconda opera di Oliver Laxe (dopo l’interessantissimo You All Are Captains, presentato in Quinzaine nel 2010) è un opera conturbante e misteriosa, di difficile sviluppo e di inquieta tensione. Siamo nell’arido deserto, dove una carovana dovrebbe accompagnare un anziano a morire attraverso le vertigini dell’Atlante marocchino. L’ultimo desiderio del saggio è quello di essere sepolto con i suoi cari, ma ahimè la morte non aspetta neanche lui, e proprio all’inizio del viaggio muore. I carovanieri, timorosi del passo di montagna e della malasorte che potrebbe colpirli, si rifiutano di continuare a trasportare il cadavere. Nel frattempo due ladroni che viaggiano con la carovana, promettono di prendere il corpo per portarlo al suo destino. Anche loro però appaiono subito dispersi, come se nessuno potesse realmente conoscere la via. In un altro mondo/universo parallelo e remoto, un altro ragazzo è perso, dovrebbe aiutare i carovanieri improvvisati per raggiungere la loro destinazione, ma tutti appaiono soltanto figure nel paesaggio.

Mimosas è un poema visuale, un’architettura di passaggi in cui qualsiasi protagonista è destinato a perdersi, prima fisicamente e poi moralmente, come se il destino del viaggio (come il viaggio del destino) fosse un inevitabile pellegrinaggio senza meta a cui ogni partire sembra ricondurre. La realtà estatica dei luoghi crea voragini impressionanti, in cui il silenzio (e il rumore stesso del movimento) riesce a definire la traiettoria di uno spostamento vacuo e senza speranza, dove per rispettare un defunto si rischia continuamente di morire. La macchina da presa pare accompagnare il gruppo che sale la montagna con difficoltà, abbraccia il passaggio di laghi e morene, tratti rocciosi in cui si affondano gli occhi. Il quadro persiste, Laxe mai per un momento abbandona i suoi eroi chichotteschi in un esercizio sempre più pericoloso, ma sempre più raffinato e astratto, con lo stesso stoicismo passato dai suoi personaggi di fronte alle avversità. Il film è diviso in tre movimenti/posizioni (inchinato, in piedi, prostrato), non dalla funzione comportamentista, bensì mistica ed in qualche modo religiosa. Il valore della vita stessa man mano che ci sia addentra nel nulla perde sempre più significato, allo stesso tempo le coordinate spazio-temporali si perdono disperatamente con il fluire della narrazione lasciando solamente la traiettoria disorientata e disorientante dell’andare avanti ad ogni costo.

La parabola di tutti i carovanieri assume un senso esistenzialmente reale, nessuno di loro è protagonista e nemmeno professionista, il viaggio a cui li sottopone il regista sembra renderli sempre più inermi, disillusi, lucidi nella loro disperazione, folli nella loro persecuzione. Nessuno ha idea cosciente dello stare lì (come i compagni di viaggio del Mortensen di Alonso o del Kinski di Herzog, ma senza nessun comandante), ma nemmeno uno ha idea di fermarsi. Ogni faccia racconta però una storia, solo accennata ed abbozzata, di fascino etereo ed esterno. Diventano spettatori del viaggio quasi come noi che ci troviamo di fronte ad uno schermo, nella mistica stessa che è l’abbandono n/del cinema e ai suoi poteri. Loro affondano in quel deserto e solo con la fede cercano un appiglio, quello che per noi può essere l’immagine, dai bordi smussati, dalla limpidezza rivelatrice dove la grana ricerca ancora la fisicità. Nel finale, quell’immagine è trafitta da una manciata di auto che attraversano il deserto al tramonto, sollevando enormi nuvole di polvere dalla loro scia, tra missione di recupero e un incontro di fantascienza. Dobbiamo credere ancora una volta, abbandonarci ad un fervore quasi mistico dalla perfetta armonia, tra un altra oscura notte prima del brillare di chiarore di un nuovo giorno. In fondo questo film splendido è solo un tempo in cui provare la caduta, uno spazio di lotta tenera e di colpa divina, dove il mistero della ragione scrive delicatamente il dolore e dove l’uomo cerca in lui una riconciliazione.

Erik Negro