MILLE CIPRESSI (2021), di Luca Ferri
«Mi voglio confessare: ci terrei che un critico scoprisse nei miei lavori certe intenzioni che ho sempre avuto. Vale a dire un’enorme volontà di essere dentro la tradizione, ma senza fare i capitelli o le colonne, perché non si possono più fare. Neppure un dio inventerebbe oggi una base attica. Solo quella è bella – tutte le altre sono scorie; persino quelle di Palladio, sotto questo aspetto, sono porcherie. Nel trattare colonne e trabeazioni, solo la Grecia ha raggiunto l’apice della fierezza. Solo nel Partenone le sagome vivono come musica», diceva nel ’78 il veneziano Carlo Scarpa, fra gli architetti più influenti del Novecento, durante quella lectio magistralis pronunciata a Madrid solo pochi mesi prima di morire scivolando incidentalmente sulle scale di un albergo in Giappone. Eppure è evidente come Luca Ferri, nel far risuonare le parole di Scarpa fra i Mille cipressi che conducono a quella Tomba Brion sua creazione più monumentale e giocoforza finale, stia in realtà parlando di se stesso, del suo cinema da sempre “architettonico” e geometrico fatto di precisi calcoli modulari e rigorosissime (a)simmetrie, della sua personale ricerca di classicità che non può che stare sempre alla base di ogni sperimentazione. Rivendicandolo, certo, ma anche rimettendolo in discussione con la comicità autoironica di un panino nella borsetta a pois dell’imperturbabile e caricaturale Vincenzo Turca già maggiordomo di Dulcinea, e di certo proseguendo sul selciato di quella sempre più bruciante e sincera umanizzazione che da Pierino in poi sta cambiando il cinema, o per lo meno la partecipazione emotiva, del “regista su Excel” bergamasco. Perché è ancora una volta la vita, ciò che Luca Ferri disperatamente cerca nel suo lambire la morte. È ancora una volta una traccia, un respiro, un brandello di cuore che in qualche modo è rimasto, e che con il suo battito vince la mancanza. Del resto, lo stesso complesso funebre della Tomba Brion, che si stacca dal cimitero di Altivole per «conquistare il senso della campagna» trevigiana con la sua armonia di specchi d’acqua, padiglioni, cerchi incrociati, propilei e cappelle, nient’altro vuole essere che un punto di congiunzione fra la morte e la vita, fra le spoglie dell’industriale fondatore della BrionVega e le risate dei bambini che accorrono a giocare dai campi e dal paese, fra le fenditure nel soffitto per permettere l’ascensione delle anime e i cani vivi e vegeti che ogni giorno abbaiano scodinzolando, fra le tombe di famiglia e il simbiotico proliferare della natura che le circonda – «bisognerebbe fare tutti i cimiteri così».
Non è più necessario immaginare e scrivere di proprio pugno sulla falsariga di Ja quella lettera d’addio mai forgiata che in qualche modo regalava una nuova possibilità dopo il suicidio, o per lo meno un senso alla malinconia, nel bernhardiano Sì. In questo secondo capitolo della pentalogia sull’assenza, a Luca Ferri basta riprendere e fare propria una lezione realmente enunciata da Scarpa, e lasciarla riportare alla stregua di un bollettino dalla voce femminile come di consueto asettica e il più possibile meccanica di Assila Cherfi. Il miglior modo per renderla spersonalizzata e atemporale, e quindi universale, riutilizzabile, eterna. C’è la ricerca di armonia nei più minuscoli dettagli, ci sono le scelte di strutture modulari che siano perfettamente regolari senza cadere nella limitativa banalità dell’unità del centimetro, c’è il rigore millimetrico e matematico come unica strada per trovare una nuova perfezione di luce e coerenza nella razionalità e nella precisione delle scelte. E ci sono persino gli errori di valutazione, l’altare da distruggere e ricostruire con altri materiali perché l’esperimento non è riuscito, i procedimenti che non sempre dalla carta riescono a diventare opera d’arte e devono essere immediatamente ridiscussi. Ci sono l’alabastro, il ferro, i mosaici, il marmo rosa e il bronzo, non certo per caso intrappolati nel materiale granuloso e pulsante del super8 Kodak, e ci sono i riflessi dell’acqua, le forme ripetute e le linee come esemplari scenografie per ogni messa in scena, in una corrispondenza fra architettura e cinema che si fa sempre più perfetta, per molti versi sentimentale nei reciproci sospiri e nel vicendevole completarsi. E poi, come già anticipato, ci sono le considerazioni generali sul classico e sul moderno, in una sempre più compiuta fusione delle arti e del pensiero degli artisti, dal maestro all’allievo che lo ha studiato, lo ha capito e ora gli dedica il più sincero omaggio osservandone l’opera e riattualizzandone le parole su celluloide fino a riportarlo a nuova vita. Un po’ come se i due cerchi incrociati, motivo ricorrente nell’opera di Scarpa e simbolo dell’amore dei coniugi Brion, unissero in qualche modo anche l’architettura e la settima arte in quella stessa ricerca di costante movimento nell’immobilismo, dei materiali composti e riplasmati dalla visione generale dell’architetto come di una macchina da presa che nei tredici minuti di Mille cipressi, in concorso alla Mostra di Pesaro dopo l’anteprima a Oberhausen, si concede giusto un paio di panoramiche, e per il resto rimane ferma a osservare rispettosamente il capolavoro di Scarpa in cui si inoltra l’anonimo e silenzioso protagonista, dalla cucina di casa al cuore di forme e dettagli della Tomba Brion. Una costruzione tanto armonica e maestosa che è impossibile vederla nella sua interezza, ma si può inquadrare solo nella complessità di un dettaglio alla volta, immutabile eppure apparentemente sempre in moto nelle sue geometrie, viva e sfuggente nelle sue linee di fuga e negli spiragli che lascia e nega alla luce. Non resta che addentrarcisi, ammirarla e forse, come lo stesso Scarpa ha scelto prima ancora che la sua opera fosse conclusa, decidere di passarci l’eternità. Ma non nella sua parte più monumentale e sfarzosa, destinata alla committenza. Molto meglio riposare leggermente fuori, in posizione discreta, fra il vecchio e il nuovo cimitero. Dove, appunto, i bambini possono ancora giocare, i cani possono ancora correre, e chi viene in visita può magari sentirsi libero di addentare un panino, nutrimento per ogni vita che va avanti. In memoria, o più probabilmente alla salute di chi non se n’è mai andato, ma continua a vivere nel suo lascito, nella sua arte, nella sua visione, protetto per sempre dall’imponenza della stessa incommensurabile bellezza che ha saputo creare.
Marco Romagna