«Half the time you think your thinking you’re actually listening»
[Terrence McKenna]
Midsommar si apre con un’immagine rustica e medievale, quella qui sopra, un panno su cui è delineata brutalmente un’esposizione tratteggiata dell’intero intreccio del film. È un prologo forse ironicamente disneyano (il film comunque percorre il sentiero della fiaba), ma subito, nonostante l’iconografia presente sia varia, a colpire l’occhio dello spettatore c’è la contrapposizione tra la prima e l’ultima sezione del disegno, un cielo notturno con la Luna sostituita da un cranio, e un cielo diurno illuminato da un Sole non più rassicurante. Per quanto banale è importante rimarcarlo: il primo lungometraggio di Ari Aster, Hereditary, racconta un mondo chiuso, claustrofobico, inquieto, buio, notturno, ma Midsommar trasporta l’orrore all’aperto, sotto la luce del Sole. È un orrore diverso, più ambiguo e sottile, che lascia più confusi che terrorizzati e più disturbati che realmente tesi. La progressione della trama ha meno momenti choc rispetto a Hereditary, che pur integrando nella propria struttura alcuni cliché del genere riesce ad atterrare lo spettatore con una rarefazione del dolore messo in scena che lentamente dà un senso di apocalisse, ma comunque la ‘grandeur’ di un evento terribile è percepibile. Un microcosmo che diventa un macrocosmo, un’allucinazione che diventa l’unica realtà possibile. Dal buio della quotidianità destinata allo sfacelo e al trauma, quella di Hereditary e dell’inizio di Midsommar, alla luce di un giardino dell’Eden malato. E tutto è scritto sin dall’inizio, dalla prima inquadratura, dal seguente canto funebre, dalla corona di fiori nella stanza dei genitori morti, è palese che stiamo seguendo la storia di persone che stanno solo subendo un disegno già delineato da una forza esterna – proprio come in Hereditary, c’è l’onnipresente sensazione dell’incombenza di qualcosa di esterno all’uomo e di assolutamente inevitabile, anche se qui forse con un pessimismo meno radicale… ma altrettanto scomodo. Ma se Hereditary lavorava sui binari della mitologia greca, citando il mito di Ifigenia e dunque presumibilmente aprendo un confronto tra il senso di responsabilità rispetto al piano divino nella cultura antica e nella cultura moderna, Midsommar usa il riferimento culturale dei riti del solstizio d’estate in Svezia più come riferimento estetico “demonizzato” che come mappatura di un pensiero – e, in egual misura, usa l’horror più per costruire delle certezze nel percorso narrativo che per voler effettivamente spaventare lo spettatore.
È preferito un approfondimento psicologico più sottile, in cui il mondo esiste in funzione della mente e la mente funziona seguendo gli ingranaggi del mondo, in un approccio diverso a quello di Hereditary dove i personaggi sono solo pedine senza speranza in una parabola discendente – e noi spettatori possiamo solo assistere al loro sfacelo ed empatizzare con i loro conflitti, pur consci dell’inevitabilità del destino. Aster, in varie interviste (la più lunga e interessante la potete trovare in fondo all’articolo), ha affermato che Midsommar è una fiaba “folk horror” dal punto di vista della maggior parte dei personaggi principali, ma non per la protagonista Dani (Florence Pugh), per cui è un “breakup movie” (film sulla rottura di un rapporto) o una “sick fulfillment fantasy” (una fantasia di realizzazione malata). Motivato dalla drammatica fine di una relazione sentimentale duratura, l’autore ha voluto utilizzare il genere horror per restituire allo spettatore l’impatto apocalittico che ha sulla psiche la fine di un rapporto. Quando si è all’interno di questa sensazione, il mondo sembra cambiare e collassare su se stesso, anche se esternamente la persona sembra soffrire ma il resto sembra rimanere uguale; per certi versi dunque Midsommar è un film espressionista, che dà una forma scenografica e pittorica alle necessità psichiche della sua protagonista. Il film inizia presentando Dani poco prima e poco dopo un evento traumatico che nessuno riuscirebbe a sopportare: la sorella bipolare si suicida e porta con sé i genitori. Nel frattempo, il fidanzato Christian è con i suoi amici dell’università, studenti di antropologia. Stanno pianificando una vacanza in Svezia per studiare il fenomeno delle festività europee per il solstizio d’estate – uno di loro, Pelle, è svedese di origine e vuole mostrare agli amici la celebrazione estiva per com’è vissuta dalla comune che l’ha cresciuto, in un villaggio sperduto nel niente, con rituali al di fuori della concezione occidentale, in un’occasione che si ripete una volta ogni 90 anni, in un periodo in cui il cielo diventa notturno 2 ore ogni 24. Gli altri due, Josh (che deve fare una tesi sul tema, e che litigherà futilmente con Christian per utilitaristici motivi universitari che in mezzo all’orrore spariranno) e Mark (che rappresenta il Matto dei tarocchi), stanno cercando di persuadere Christian che gli conviene lasciare Dani, quando arriva una sua telefonata. Lui risponde, e dall’altra parte sentiamo urla disperate. L’evento è accaduto, ed è mostrato visivamente, senza parole; Aster preferisce usare la regia per opprimere e deprimere lo spettatore, rifiutando l’escamotage violenza fuori campo e preferendo escludere la parola rispetto all’immagine, come in Hereditary con la morte di Charlie, messa in scena per certi versi più di una volta ma mai verbalizzata. Non è pornografia della sofferenza quanto un necessario schiaffo di realismo in faccia allo spettatore, come cercando di trattare l’orrore nel genere non più come una gratuita mattanza di bestiame ma come una vera manifestazione del tormento e della tribolazione. Dall’annuncio dell’evento si passa all’evento e dall’evento alla reazione a esso: Dani, una persona la cui vita è basata sulla co-dipendenza, non ha più la propria famiglia, e l’unica persona che ci può essere per lei è Christian, che non la può più abbandonare, bloccato dal senso di colpa in un difficile ricatto con se stesso.
Per Dani, questa è l’oscurità: l’orrore del quotidiano, lo sfacelo melodrammatico delle certezze, la necessità di attaccarsi a una persona che restituisca amore, che dia supporto e senso a tutto quanto. Essendo il bipolarismo un disturbo ‘ereditario’ (sic), sembra implicato che la preoccupazione di Dani sia tanto integrata nel piano degli affetti quanto in quello della sua interiorità. Con la vacanza in Svezia, tutto sembra aprirsi. Le varie sconnessioni nel sentire introspettivo di Dani, raccontate con battute spezzate e cambi di scena drastici, si dilatano progressivamente, dimostrando come l’apertura di questo mondo inquietante, pronto a fagocitare tutto come nel classico horror, abbia per lei qualcosa di idilliaco. Non è chiaro da subito, perché nello spettatore è ormai seminata l’idea archetipica dell’orrore tipico del genere, da Wicker Man a Kill List o Rosemary’s Baby, e il modo in cui Dani si aggira nel mondo raccontato è perlopiù alienante. In sottofondo, i confronti tra i suoi compagni di viaggio sono prevedibili, e lo svolgimento del gioco al massacro tipico dell’horror scivola liscio come l’olio – ma è l’aspetto meno interessante dell’opera. A essere davvero grande e importante nella costruzione di Midsommar, il vero motivo per cui è già iconico e unico nel genere dell’horror estivo, è perlopiù la costruzione del mondo del rituale, che prende a piene mani dai culti spiritualisti che più il regista ha trovato affascinanti (così da poter creare un’ambivalenza: lo svolgimento delle pratiche religiose è disturbante quanto la concezione dietro di esse può essere in realtà utopica, almeno nella condizione di Dani). Il film, lento e denso, gira attorno a lunghe macrosequenze che dettagliano passo dopo passo la conversione di Dani, che persa una famiglia se ne trova una nuova che è ideale alla propria malata gestazione del dolore, insieme alla discesa negli inferi di Christian. La trama del film è già descritta dai muri, dai panni, dalle rune, dai piccoli elementi in scena, e guardarli e interpretarli correttamente aiuta a razionalizzare il racconto. Il testo sacro del culto è un testo in divenire, che viene via via compilato da Ruben, un ragazzo con una malformazione fisica e un ritardo mentale (e perciò non ottenebrato dal giudizio) che in realtà passa buona parte del tempo a dipingere sulle pagine già scritte, mentre la comunità è lasciata alla libera interpretazione degli scarabocchi. Aster afferma che Ruben rappresenta l’aspetto politico di Midsommar: verso la fine del film, è in piedi in mezzo a una nuvola di cotone, a pitturare la carta, creando nuovi deliri che verranno mal rappresentati e compresi dai suoi concittadini, come un Dio finto in un paradiso finto, di fronte a un’intera comunità (il popolo svedese dopo la situazione creatasi con l’ex-partito neonazi dei Democratici Svedesi di Jimmie Åkessonha? o in generale la risposta ai dogmi religiosi mal interpretati dalle istituzioni?) che erra in un ciclo vitale infinito di esegesi deliranti, senza colpe, in cui esiste una sola verità con cui interpretare tutto quanto, una verità aperta negli intenti e chiusa nel metodo. Una verità terrificante ma accettabile, per Dani, nel momento in cui riesce a superare l’incomprensibile e spaventoso dolore (o perlomeno una sua forma) del sentirsi tutt’uno col tutto; nel mezzo di un ‘bad trip’ causato da un infuso coi funghi allucinogeni, la protagonista vede una sé allo specchio che si deforma sottilmente fino a rassomigliare la deformazione di Ruben. Nella sua malata fantasia di realizzazione, persino un falso profeta esoterico comunque richiama qualcosa che Dani può riconoscere, e con cui può empatizzare, un’altra versione di sé, quella incontrata nell’antro più profondamente disturbato della sua coscienza.
Sulle letture simboliche e mitologiche del film si può dire molto e già è stato e verrà detto molto: basta una ricerca su Reddit o su YouTube per vedere una progressivamente più ricca lista di analisi e interpretazioni, che dall’alfabeto runico ai dettagli della scenografia finiscono per dare una vera e propria mappatura sensata dell’intero percorso del film. Seminando indizi per tutta la durata di Midsommar (come anche in Hereditary…), Aster ha avuto così modo di cominciare la propria filmografia già con un leitmotiv riconoscibile e intrigante, che può attrarre molto alcuni cinefili-investigatori, i “lynchani” forse, che necessitano la seconda visione per collegare tutti i punti. Anche questo, per quanto derivativo, è interessante in un autore del panorama moderno, considerando con quanta brutalità siamo stati progressivamente buttati in un panorama horror tendenzialmente troppo didascalico, che solo di recente sta resuscitando – ma su questa scia, anche David Robert Mitchell con It Follows e il neo-noir disperato e grottesco Under the silver lake è riuscito nell’impresa di creare delle visioni criptiche e potenti. Cos’ha di diverso Aster, che gli studenti di cinema statunitensi stanno già paragonando a Kubrick? Registicamente, probabilmente, non ha niente di “nuovo” in senso stretto: ama i piani sequenza come Kubrick o come Tarkovskij, i melodrammi come Bergman, il senso dell’avventura e la sottigliezza di Spielberg ma anche i teneri silenzi di 45 anni di Andrew Haigh. È un cinefilo che prende quello che ama e lo rimastica nel modo più funzionale, e riesce comunque a costruire uno stile riconoscibile e avvincente. Chi scrive è convinto che, nonostante spesso la messinscena che Aster decide di imporre a determinati momenti di entrambi i suoi lungometraggi (e anche nel crudele corto The strange thing about the Johnsons) sia efficace in modo anticonvenzionale e coraggioso, l’autore veramente sia eccellente perlopiù come sceneggiatore. È capace di costruire mondi soffocanti ma intriganti, con dialoghi triviali di conflitto in cui è possibile (e drammatico…) ritrovarsi in entrambi i punti di vista, alternati a incubi ermetici e quasi muti, in cui lo choc è conferito più dalle implicazioni di ciò che stiamo vedendo che da ciò che stiamo vedendo. Le parole sono scritte di pari passo con le immagini e il ritmo delle inquadrature del film ha successo nel caratterizzare la compenetrazione tra i due filoni, le somiglianze tra il privato e l’etereo, tra l’individualismo degli studenti di antropologia e il panteismo della setta. All’inizio Dani urla al telefono, e Christian le risponde confuso, incapace di comunicare, la connessione tra loro è interrotta dallo spazio e da un’incapacità di allinearsi, ma alla fine il dolore di Dani è condiviso, tutti urlano con lei, l’empatia è l’unica cosa che c’è, e tutto il ciclo sembra compiersi. Finalmente Dani ha trovato qualcosa che la capisce.
Ari Aster partorisce mostri, volge lo sguardo verso la macchina da presa con ironia, richiama la psichedelia deformando lo spazio con effetti digitali realistici, mette in scena un rituale di Ättestupa (simil-ubasute, v. La leggenda di Narayama) e metodi di tortura vichinghi, racconta cinque minuti di angoscia solo con ripetuti gemiti fuori campo… È un grande sceneggiatore perché racconta con sincerità l’ambiguità, più che l’orrore, del nostro essere. E con questi due primi film, eguali e opposti, ha dimostrato perlomeno di avere la stoffa di poter turbare una nuova generazione di appassionati di cinema creando una sensazione imprevedibile.
Nicola Settis