MIDNIGHT TRAVELER (2019), di Hassan Fazili
Reduce dal Premio Speciale della Giuria al Sundance, giunge a Berlino in Panorama Dokumente Midnight traveler, con cui l’afghano Hassan Fazili racconta tre anni di vita in fuga, con la moglie Fatima Hussaini e con le loro due figlie Nargis e Zahra rispettivamente di 11 e 6 anni, dalla terra d’origine verso la lontana Europa, emblema di sicurezza per chi, nella tirannia talebana, non ha altra scelta che migrare. Midnight travelers parte proprio dalla taglia messa dai talebani sulla testa del regista, spiccata dopo la messa in onda su una televisione locale del suo documentario Peace in Afghanistan. Un film che raccontava di Mullah Tur Jan, amico del regista ed ex comandante talebano che aveva deposto le armi in favore di una vita civile pacifica, e che poco dopo la trasmissione del film venne brutalmente assassinato con il suo sangue a ricordare anche allo stesso Fazili quanto vicino, immediato e pressante fosse il pericolo. Il regista pondera le varie possibilità e prende poi la decisione, l’unica possibile, di lasciare l’Afghanistan. Ma dopo aver provato senza immediato successo le varie pratiche per avere un visto da rifugiato, non gli rimane altra strada che provare a entrare illegalmente in Europa.
Fazili e famiglia partono dal Tajikistan, poi devono passare in Iran, da lì in Turchia e poi in Bulgaria, dove rimangono in un campo per alcuni mesi. Poi è il turno della Serbia, dove i quattro rimangono più di un anno all’interno di un campo di “transito”, e infine l’Ungheria che è la porta principale per l’entrata in Europa. Percorrendo, in sostanza, tutta la rotta dei Balcani più volte raccontata da reportage, libri e televisione.
Il punto che distingue questo lavoro da tutti gli altri passati sotto i nostri occhi è il linguaggio: in questo lungo viaggio il regista, la moglie Fatima Hussaini (anch’ella cineasta) e la figlia più grande usano i cellulari per filmare la loro vita durante questa traversata, e traggono forza costante dal documentare la loro difficile situazione. Con tre smartphone filmano la loro vita quotidiana, dalla spesa al supermercato al guardare la tv, dal cercare rifugi in palazzi abbandonati alle tende dove sono costretti a vivere, nell’assurdità del movimento continuo del viaggiatore o la folle circostanza del restare fermi nei campi di transito.
Fazili filma anche tutti i passaggi illegali: il passaggio attraverso i confini che superano correndo e addirittura la trattativa con i trafficanti che chiedono soldi per farli passare in Bulgaria. Midnight Traveler è pieno di sorprendenti colpi di scena, narrato quasi come un thriller, pieno di pianti ma anche di risate. Senza alcuna retorica viene messo davanti ai nostri occhi il loro sogno di libertà, ma anche le insensate aggressioni razziste che subiscono. Un film senza filtri, in cui c’è davvero di tutto, compresi i complimenti che Fazili fa a una giovane serba facendo così adirare la moglie, la figlia che balla e canta sulle note di un videoclip di Michael Jackson, e la riemersione del loro passato da credenti, ormai superato rimanendo fermi, o addirittura facendo un passo indietro, nell’avanzare della deriva fondamentalista.
Ma Midnight Traveler è anche un film anche pieno di domande per noi spettatori o addetti ai lavori: è giusto filmare ogni momento anche se particolarmente drammatico o è moralmente sbagliato pensare a una buona scena cinematografica in mezzo alla disgrazia? Il discorso del limite del filmare è importante, e il regista afgano risponde appunto filmando, non potrebbe fare altrimenti, sia le gioie sia le battute d’arresto, senza però mai perdere la sua umanità. I protagonisti di Midnight Traveler, del resto, sono registi, che sanno benissimo che cos’è uno sguardo cinematografico al di là del mezzo limitato di cui dispongono, e nell’evitare con cura qualsiasi tipo di ricatto o pornografia ci mostrano il viaggio lasciando fuori campo molta della sua crudezza, decidendo di mostrare solo ciò che va mostrato. Quando la figlia più piccola scompare, per esempio, Fazili spegne la videocamera, come a dire che c’è un limite a tutto, che ci sono aspetti che non devono essere immortalati, né (ri)visti, né tanto meno dati in pasto a un pubblico.
I quattro sopportano ogni sorta di difficoltà ma vanno avanti, sperando in un futuro migliore per se stessi e per le loro figlie, in un film nel quale la loro esperienza non è stata in alcun modo modificata, né tanto meno filtrata attraverso gli occhi occidentali. Fazili racconta la sua stessa storia, ci mostra i fatti e si sofferma giustamente anche sul costo mentale o psicologico. Il film è soprattutto un inno alla libertà, in cui sono molto più in evidenza le scene di divertimento che quelle di dolore, come quando le bambine si lanciano in una battaglia a palle di neve tra le barriere e il filo spinato del campo di transito. Giocano, sorridono, sembrano divertirsi un mondo. Ed è magico quanto è orribile guardarle, ma vedere apparire davanti agli occhi anche il filo spinato che le circonda. Il nostro filo spinato, i nostri confini.
Claudio Casazza