15 Febbraio 2025 -

MICKEY 17 (2025)
di Bong Joon-ho

«Scusa se te lo chiedo, ma… Com’è morire?». Una sensazione, quella del trapasso, non solo esistenziale ma anche e soprattutto corporale, fisica, che qualsiasi essere umano è destinato prima o poi a provare ma che nessuno potrà mai fare a tempo raccontare e cercare di spiegare. Un inevitabile dato di fatto sul cui ribaltamento si impernia la fantascienza da cui parte Mickey 17, adattamento (quasi immediato, anzi in realtà annunciato già nel 2022 addirittura qualche mese prima dell’uscita del romanzo) del best seller Mickey 7 con cui già lo scrittore statunitense (e ricercatore sul cancro perfettamente conscio del metodo sperimentale) Edward Ashton aveva immaginato la possibilità di uomini espandibili, impiegati usa e getta da adoperare come vere e proprie cavie in vista della colonizzazione di un nuovo pianeta. Uomini pronti, se necessario, a morire ogni giorno per poi essere nuovamente clonati con una stampante 3D e un hard disc di backup contenente la loro identità e i loro ricordi, intenti a sperimentare empiricamente e a forza di tentativi gli effetti dell’atmosfera aliena su se stessi e sui propri corpi fino a trovare le definitive condizioni di abitabilità, le fasi necessarie per potersi adattare, le giuste sostanze e i giusti dosaggi dei vaccini con cui l’essere umano sarà sicuro di sopravvivere agli agenti patogeni e alle bizzarre faune locali. Una storia di vita (o meglio di vite) e di morte (o meglio di morti), ma anche e soprattutto di neocolonialismo e di amore, di anticlassismo e di sacrificio, di antispecismo e di doppi (letterali, con un Robert Pattinson semplicemente straordinario nel guardare al Jeremy Irons del cronenberghiano Inseparabili cambiando totalmente volto e posture fra la diciassettesima e la diciottesima versione del suo Mickey spesso insieme in campo) creati per errore in contemporanea, con cui smascherare fino alla ribellione popolare tutte le contraddizioni e le storture di un sistema di potere basato sull’ultracapitale, sul neoschiavismo, sull’ultracontrollo, sul non guardare in faccia nessuno. Bong Joon-ho, quasi sei anni dopo la Palma d’Oro, gli Oscar e il successo planetario di Parasite (del quale in una sequenza in flashback riprende la casa), la mette in scena nello sfarzo di una maxiproduzione Warner da circa 150 milioni di dollari, con cui ritornare non solo a Hollywood ma anche specificatamente ai suoi film precedentemente realizzati in parte o del tutto negli Stati Uniti per riaggiustare in qualche modo il tiro andando questa volta fino in fondo nell’attacco al Potere, unico possibile punto di approdo al termine di un viaggio verso un pianeta ghiacciato che non può che ricordare la nuova era glaciale (e le classi sociali lungo lo scorrere del treno) di Snowpiercer, popolato sin dalla prima sequenza da creature da qualche parte fra lo spaventoso e il simpatico con cui rideclinare ancora una volta l’amicizia (im)possibile di Okja. Un Potere rappresentato, di certo non a caso per quanto il libro e il film siano stati concepiti e girati ben prima delle ultime elezioni statunitensi, da un ricchissimo imprenditore-scienziato-affabulatore pazzoide e incapace di qualsiasi pietà che, nella sua corsa allo Spazio e nel suo non provare nemmeno a nascondere il proprio classismo e il proprio razzismo (fino al sogno di fatto hitleriano e neonazista di creare una «razza pura» con cui popolare il pianeta scegliendo personalmente i geni – della sempre magnifica Anamaria Vartolomei – con cui formare i nuovi abitanti), quasi sfiora l’instant movie nel suo perfetto incarnare (e deridere) l’asse Trump-Musk (compresa una sostanziale Melania interpretata da Toni Collette), consapevolmente uniti nel Kenneth Marshall affidato a Mark Ruffalo, ancora una volta perfettamente a suo agio con le esagerazioni parossistiche e satiriche già di Povere Creature!.

Sembra quasi di scorgere in filigrana l’immaginario distopico di Ray Bradbury, lungo lo scorrere di Mickey 17. Un film nel quale le forme aliene nient’altro sono che gli abitanti autoctoni di un pianeta che se ne sarebbero rimasti tranquilli senza alcun problema in fondo all’Universo, mentre il sostanziale marziano invasore che colonizza e stermina innocenti senza nemmeno valutare la possibilità di una pacifica convivenza siamo noi uomini, colpevoli di interessi economici ma soprattutto di insensibilità, di disinteresse, di una crudeltà tanto gratuita che nemmeno la vita di un simile ha più alcun valore, ma si può replicare all’infinito come un oggetto il cui lavoro è soffrire e quotidianamente morire. Smarriti fra la fascinazione per l’uomo forte che porta i più esaltati a seguirlo ciecamente come fosse un semidio, e la disperazione e lo stato di necessità che portano altri ad accettare un lavoro-vita eterna che in realtà nient’altro è che un’eterna morte, un eterno esporsi ai pericoli, un’eternamente replicabile sofferenza senza apparente via d’uscita. Una sorta di immortalità atroce che nient’altro è che il ripetersi modulare e ineluttabile di un’iniquità, di un trauma, di una malattia, di un dolore, di un passo dopo l’altro verso il baratro morale sbarazzandosi di ogni corpo come fosse spazzatura da cremare in un pozzo di lava, mentre chi detiene il potere attua imperterrito il suo controllo sulla vita, sulla morte e perfino sui sentimenti di chi gli sta sotto, e chi lo subisce non può fare altro che vivere, morire e amare esattamente come gli viene ordinato, trattato alla stregua di un subumano. Eppure non c’è alcuna cupezza, nella sceneggiatura e nella messa in scena di Bong. Al contrario, la metafora (fanta)politica passa attraverso la parodia, il fantastico e il romanticismo, mentre l’ambientazione sci-fi apre sempre più a una divertita commedia e all’ironia più nera e scorretta, farsesca e a almeno tratti irresistibilmente spassosa fra l’espandibile Pattinson/Mickey geloso di se stesso (e poi doppio cateto 17 e 18 di un triangolo sessuale da regalare all’amata) quando la sua copia multipla generata credendolo morto andrà inizialmente via con la “sua” bella Nasha, e le esagerate reazioni di terrore, ordini urlati in piedi su un tavolo e continue disinfezioni del ridicolo narcisista Ruffalo/Marshall quando dal diamante nero strappato al pianeta e appena tagliato al laser spunteranno un paio di ‘bambini’ alieni. E se la perfetta riproducibilità del corpo e dei ricordi del protagonista (non di rado dimenticato in uscita dalla stampante 3D e fatto capitombolare per terra) non potrà che mandare progressivamente alla deriva e far crollare l’intero sistema nell’unicità di ognuna delle sue versioni, apparentemente identica eppure ogni volta differente nell’anima, nella personalità, nel carattere, nella profondità dei sentimenti, e questa volta apertamente illegale nel tassativo divieto di co-esistere e di coalizzarsi per sopravvivere, non potrà che essere il consapevole immolarsi di uno dei due a mettere definitivamente fine all’oppressione e alla catena di morte, mentre l’intero equipaggio finalmente troverà la forza di ribellarsi ai padroni e di prendere il controllo della missione, salvando e restituendo il piccolo alla madre aliena e poi creando una nuova forma democratica in cui autoregolamentarsi e pacificamente convivere. Poi sì, forse non è impossibile trovare qualche lungaggine, qualche didascalismo e qualche reiterazione, nei quasi 140 minuti (effettivamente un po’ troppi) del film presentato in Berlinale Special Gala alla 75ma FilmFestSpiele berlinese. Così come c’è qualcosa di ‘facile’ nella caratterizzazione degli alieni ‘buoni’ e degli uomini (non solo ricchi) tendenzialmente ‘cattivi’ (e nell’immediato perfetto funzionamento del traduttore elettronico sperimentale con cui parlare con loro), alla lunga sono forse troppe le voci fuori campo e i flashback con cui continuare a puntualizzare quello che è già più che lampante, e forse a livello drammaturgico si sarebbe potuto evitare di lasciare per così lungo tempo il cucciolo di extraterrestre letteralmente appeso ai denti di Nasha mentre la narrazione procede centripeta (per quanto in realtà avvincente, pur chiedendo qua e là di sospendere l’incredulità) in mille altre direzioni. Eppure, per quanto il livello di Memories of murder (ma pure quello di The HostMadre) sia qui tutto sommato lontano, nel suo portare avanti e forse fino alle più estreme conseguenze le tematiche da sempre centrali del cinema del cineasta coreano l’esplosivo (letteralmente) Mickey 17 ha l’indiscutibile merito di ragionare sull’uomo come carne da macello, sul Potere come deriva egoriferita e dittatoriale, sugli equilibri ambientali come un qualcosa che è meglio evitare di toccare, e sul proletariato che prima o poi non potrà che ribellarsi fino a riprendersi ciò che appartiene al Popolo. Meno brutti, sporchi e cattivi di chi avanzava progressivamente dal vagone di coda fino alla locomotiva di Snowpiercer, e forse proprio per questo nettamente più intelligenti nel raccogliere prove con cui legittimare le proprie azioni prima durante e dopo la Rivoluzione, finalmente in grado di vivere liberi anziché di (continuare a) morire. Mentre l’indiscutibile talento autoriale di Bong Joon-ho attraversa sicuro generi, metafore, immaginari, situazioni e una pletora di visivamente strabilianti intuizioni di messinscena. Compiutamente politico eppure sempre sanamente popolare, perfettamente chiaro nel suo senso e nei suoi messaggi eppure ancora capace di stupire. Magari imperfetto, magari semplificato in qualche cosa rispetto ai capolavori coreani per la necessità mediare fra due diverse culture. Ma indiscutibilmente pieno di fascino, di pensiero, di senso della meraviglia. Di (amore per il) cinema.

Marco Romagna

“Mickey 17” (2025)
139 min | Adventure, Comedy, Fantasy | South Korea / United States
Regista Bong Joon Ho
Sceneggiatori Bong Joon Ho, Edward Ashton
Attori principali Robert Pattinson, Toni Collette, Mark Ruffalo
IMDb Rating N/A

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