METRONOM (2022), di Alexandru Belc

Torna a indagare sul suo passato il nuovo cinema rumeno, che oltre a due dei suoi rappresentanti più influenti del periodo e presenti in questa Cannes 75 – Cristian Mungiu in selezione ufficiale con R.M.N. e Radu Jude nella sezione cortometraggi con The Potemkinists – vede Alexandru Belc in Un Certain Regard, all’esordio nel lungometraggio di finzione dopo un passato prettamente documentarista di cui si è apprezzato soprattutto Cinema Mon Amour (2016). Nella sua unione di indagine storica – forte di un master in scienze politiche – e coming of age (ri)portati in vita con un regia intimista ma che – va detto – forse non riesce davvero ad essere intima da quanto risulta un po’ costruita a tavolino, l’opera si innesta sulla scia dell’infinita riflessione dell’arte su tematiche che – ahinoi – non smettono mai di essere contemporanee. E per quanto ogni anno ai Festival girino una manciata di film in qualche modo analoghi, nonostante nello specifico questo non sia una rivelazione, Metronom non smette comunque di frustrare, fare infuriare e smuovere (e rimuovere) qualcosa in ognuno, come ogni film sulla dittatura. In questo la sua importanza forse maggiore sta nel costituire un tassello nel (macro)racconto di che cosa sia la propaganda e di come subdolamente agisca sui giovani, tanto che si potrebbe parlare quasi ormai di un filone a parte, che certamente talvolta produce capolavori, talvolta film mediocri o decenti o semplicemente belli, ma sicuramente produce sempre film utili, non solo perché è dovere umano sapere e ricordare, ma perché la retta della storia è un boomerang e si ripiega continuamente su se stessa, e in questo 2022 folle ne abbiamo avuto una prova ben più che evidente.
Ecco perché quella di fare finalmente parlare di chi è (stato) costretto a tacere è come e più di sempre un’urgenza, come testimoniano alcune opere recenti. Uno sguardo interessante sull’azione del regime totalitario sui giovani al di là della cortina di ferro, sul suo mettere in ombra o meglio (provare a) cancellare il pericolo dell’individualità (quindi del pensiero libero) era stato fatto per esempio dal regista ungherese Gabor Fabricius con Erasing Frank, presentato nella Settimana Internazionale della Critica di Venezia 2021: un moderno tentativo di Nido del cuculo nella Budapest del 1983, con il suo bianco e nero punk di concerti clandestini, ospedali psichiatrici e lobotomie. La storia era quella di un cantante perseguitato per la sua musica perché le parole sono rivoltelle e  l’arte libera una bomba a mano. Ma poco prima, a raccontare le interiora della Securitate, i labirinti della sua struttura e i suoi tentacoli da piovra, era stato Radu Jude, segnando il 2020 come una data spartiacque nell’(auto)racconto rumeno perché è difficile eguagliare un’opera della portata di Uppercase Print, paradocumentario che accostava due scritte diverse: quelle della (ri)scrittura di Ceaușescu della storia contemporanea rumena tramite la propaganda televisiva, che il regista presentava attraverso i materiali d’archivio dell’epoca, e quella delle scritte sui muri che inneggia(va)no a una libertà e a una giustizia che sono ontologicamente contro ogni regime. Le lettere maiuscole del giovane studente Mugur Calinescu, realmente esistito, che l’autore faceva rivivere sottoforma di messa in scena teatrale in cui il copione sono i fascicoli della polizia segreta rumena, le testimonianze, le dichiarazioni, il processo e quella strana morte, e in cui il palco non poteva che essere quello studio televisivo in cartone, non più artificiale di quello reale in cemento. Con un semplice processo di giustapposizione, Radu Jude (ri)dava voce alla storia attraverso quella (voce e storia) soffocata del protagonista, interpretato da una giovane promessa del cinema rumeno che non a caso ritorna in Metronom, con un ruolo paradossalmente agli antipodi ma in realtà drammaticamente identico.
Serban Lazarovici nel film del 2022 è Sorin, il ragazzo di Ana, con cui lo vediamo nella scena iniziale mentre si ritrovano in una piazza e si scambiano un abbraccio che ha già il sapore della separazione perché il giovane si trasferirà presto, e ogni momento insieme è doloroso e prezioso. Una separazione che costa tanto più cara quanto il modo in cui è resa possibile: per poter andare in Germania con la famiglia è stato costretto a incastrare i suoi amici. Insieme era stato deciso di mandare una lettera di denuncia al regime a Cornel Chiriac, lo speaker radiofonico che gestiva Metronom, l’emissione musicale che Radio Europa Libera diffondeva clandestinamente in Romania. Una lettera che Sorin, cedendo a un ricatto, darà in mano alla polizia. Così quella festa in casa di Roxana da raduno di liceali alle soglie della maturità e da possibile nido di un primo amore si trasforma presto in un delirio kafkiano tra le pareti incrostate della centrale di polizia.

Il film si può dire diviso in tre parti anche se in realtà è di fatto diviso in due: il prima e il dopo. Prima l’adolescenza. Fatta di sgattaiolare fuori di casa, di cosa mettersi, di tacchi rubati alla mamma, di sognare un amore, di guardare la porta quando questo tarda e parlare con gli altri sembra una perdita di tempo. Una vita descritta con una regia certamente non nuova, magari un po’ studiata nello sguardo ai suoi maestri, ma delicatamente tattile, soffice, che gioca con gli spazi e sta attaccata al gruppo e alla protagonista, agli sguardi, ai rumori, ai sospiri confusi con i balli scatenati sulle note di Light My Fire, proprio di quei Doors già simbolo della libertà che in questo 1972 di contraddizioni c’è chi inneggia e chi soffoca. Il 1971 infatti non aveva segnato solo la morte di Jim Morrison, ma quella della parola di un intero Paese, da quando le cosiddette “Tesi di Luglio” di Ceaușescu avevano dato inizio ad una sorta di controrivoluzione culturale contro l’autonomia intellettuale.
Quella che Ana perde allora è una doppia verginità. Non solo quella di far l’amore – ritardato, interrotto e poi ripreso, con quei «ti amo» confusi di quando si pensa che abbiano il peso del piombo – ma quella dell’ingenuità di quando non si vuol credere alle ingiustizie o si pensa di esserne immuni. Un’incredulità che si porta dietro in centrale, nel suo rifiuto a piegarsi scrivendo la dichiarazione, a firmare condanne per salvarsi e diventare tessera anche lei del mosaico degli orrori che è quello che lentamente mette insieme il regime, pezzo dopo pezzo. Così vengono incollati gli studenti, e così li osserva la macchina da presa, ora più fredda e distaccata, mentre stanno seduti lì in mezzo ai compagni e dietro a banchi di una scuola diversa ma in cui si impara ugualmente. Si impara cos’è il lavaggio del cervello per esempio, e fino a che limite si può spingere un’ideale e quando e se avranno la meglio la paura o la comprensibile e umanissima scelta di salvarsi. Questo è in fondo il punto di domanda su cui verte il film e che di fatto non trova risposta, perché è un continuo inseguirsi di dubbi su quanto scendere a compromessi, su cosa sia giusto e cosa sia saggio, su chi ascoltare e chi non ascoltare, di chi fidarsi e di chi diffidare, se seguire il gregge o seguire se stessi. Se «farsi furbi» o restare fedeli alla propria indole. Nello specifico poi Ana dovrà scegliere se accettare le suppliche del padre disperato, che grazie alla sua influenza di professore universitario le fa ottenere il trattamento di favore di poter ritrattare la sua deposizione ed evitare il carcere che le si presenta davanti, ma ancora dovrà scegliere se collaborare con il regime per mostrare il suo rimorso per il tentativo di ledere alle sue fondamenta con quella lettera così pericolosa perché così sincera, e mai giunta fino alla radio.
Non si sa cosa sceglierà la giovane, se si garantirà un futuro «brillante» in cambio di qualche «piccolo favore», probabilmente riportare fatti e parole, o se resterà vergine al potere. Il finale la mostra coi compagni di scuola mentre nel cortile discutono della maturità, dei letterati, delle domande dell’esame, e sono spensierati come devono essere e nervosi invece per gli stessi motivi per cui lo sono i giovani maturandi di tutto il mondo, quasi dimentichi di quanto accaduto ma così non il pubblico. La loro vita di studenti ma non più di adolescenti va avanti, e ciò che è ingiusto e contro cui combattevano diventerà forse presto la normalità del quotidiano. Qualcuno di loro magari nel crescere verrà toccato di nuovo dalla piovra del regime, e si trasformerà come per stregoneria in quella zona grigia che come una nebulosa ogni dittatura si porta dietro, perché non c’è niente di manicheo in lei se non il nero. Quello assoluto che assorbe quanto vi stia intorno. Ceaușescu verrà rovesciato nel 1989 dalla Rivoluzione Rumena, a testimonianza di come le dittature abbiano sempre vita più o meno breve. Ma purtroppo sono come le code delle lucertole, quando le tagli ricrescono, magari altrove, magari dall’altro capo del mondo o non troppo distante, e si lasciano dietro quel mozzicone disgustoso di materia organica moribonda che pulsa e vibra ancora per un po’, come un monito.

Bianca Montanaro