MERCENAIRE (2016), di Sacha Wolff
Lo sport al cinema, si sa, è di per sé un portatore di valori. Il valore del sacrificio, quello del duro allenamento, quello della ricerca di una forza interiore per riuscire a ottenere gli agognati risultati, che siano i migliori tempi nella corsa o nel nuoto, che siano le migliori triple nel basket, che sia la rete che si gonfia giocando a calcio. E nemmeno Mercenaire, esordio al lungometraggio del regista classe ’81 Sacha Wolff presentato a Cannes 2016 alla Quinzaine des Réalisateurs, si sottrae in questo senso ai propri doveri, innestando il proprio dramma familiare e sportivo nel mondo del rugby. Uno sport che forse ancor più degli altri ha bisogno di uomini veri, grandi e grossi, senza paura, ribelli. Uno sport fatto di spirito guerriero e di terzo tempo appena l’arbitro fischia la fine, uno sport fatto di unione della squadra, di ferite che sanguinano, di muscoli e sudore. Uno sport di cui però Mercenaire mostra senza remore anche l’altra faccia, quella delle sostanze dopanti, quella delle gelosie fra compagni di squadra, quella della vendita delle proprie prestazioni sportive al miglior offerente senza il minimo spirito di squadra. E in effetti quello di Wolff è prima di tutto un film che si interroga sui compromessi, su quale sia la loro necessità per andare avanti in un mondo ipocrita e su quale sia il loro punto di rottura, oltre il quale tutto viene rimesso in discussione.
Soane, giovane giocatore dilettante a Noumea, Nuova Caledonia, ancora oggi colonia francese (per quanto la dicitura odierna sia la più elegante “Collettività d’oltremare”, perché “il colonialismo è finito”, dicono…) in fondo all’Oceania, pur di andare a giocare in Francia sarà disposto ad accettare inizialmente ogni tipo di compromesso, facendosi frustare e poi scacciare con il fucile da un padre per il quale il figlio è come morto, ingoiando amari rospi nel vedersi scartato già in aeroporto perché di “soli” 120 chili e poi pastiglie per aumentare di peso giocando per pochi spiccioli in un’infima squadra dilettantistica, indossando senza fiatare il pene posticcio – bianco, peraltro – per raggirare il test antidoping, accettando di riconoscere un figlio probabilmente non suo pur di vivere il sogno d’amore, ma anche subendo i ricatti di chi lo ha portato in Francia, fino alla fuga della promessa sposa Coralie e al nuovo crollo del mondo. Dopo essere passato per un innamoramento, una gravidanza, un attentato alla sua vita per gelosia e un abbandono subìto per paura dei creditori, è arrivato per Soane il momento di alzare la testa, di combattere anche giocando sporco, di pensare a se stesso, di diventare un mercenario, un Mercenaire appunto, per scoprire il duro prezzo della libertà. Dopo il rogo paterno che ha interrotto bruscamente la sua prima vita, arriva il fallimento personale a romperne la giovinezza. E quella haka che i compagni chiedevano sotto la doccia a Soane nei primi allenamenti insieme, diventa all’improvviso un grido di battaglia che esplode fra il primo e il secondo tempo della partita e della vita del giovane, diventato uomo ritrovando nel cuore infranto le sue radici di guerriero maori. Soane quindi da ricattato diventerà ricattatore, da torturato diventerà torturatore, da più debole diventerà più forte, da debitore diventerà uomo libero, ma solo dopo averne pagato il durissimo prezzo emotivo con nuovi e differenti compromessi, quelli del cuore, senza i quali non si può vivere. Ecco quindi che a Coralie lascerà, dopo l’ultimo e lacrimato rifiuto a tornare a vivere insieme, un gruzzolo per crescere il figlio, ed ecco soprattutto il ritorno a casa, in ginocchio davanti al padre che non vorrà riaccoglierlo ad assistere impotente suo suicidio, per poi a lanciare una splendida haka finale durante l’inumazione per rendergli onore.
Mercenaire è quindi, come detto, un film sul compromesso, è un viaggio nel puro e nel marcio dello sport, è un romanzo di formazione, è un dramma d’amor tortuoso tenero e straziato, è la riscoperta delle radici, è un kammerspiele familiare fatto di padri troppo oppressivi ma che in fin dei conti avevano ragione e di figli sognatori che dopo troppi fallimenti, porte in faccia e falli di reazione, rendono omaggio a chi li ha resi uomini. Ma è anche un film su quanto sia paradossale far parte di uno Stato che sta dall’altra parte del mondo, apparentemente un altro universo, un’altra galassia. A Noumea si parla anche kanak, ma la lingua ufficiale è il francese, gli autoctoni sono una minoranza, l’inno è la Marsigliese, il Presidente sta a Parigi e ad oggi si chiama François Hollande. Sacha Wolff inserisce tutte queste istanze in una vicenda scorrevole e in una regia mai invasiva, costruendo un film che mantiene una tenuta narrativa tutto sommato buona, ha messaggi chiari e li espone in maniera semplice, sfrutta la commistione di generi, compresa qualche breve incursione in atmosfere dalle parti del thriller, per esprimersi al meglio. Certo, non si tratta di un film straordinario, le idee sono salde ma non così originali, le forme cinematografiche sono gestite bene ma passano tutto sommato inosservate, senza rovinosi capitomboli ma nemmeno particolari guizzi linguistici, e vi sono pure qua e là, a voler pignoleggiare, sporadiche cadute di tono o qualche passaggio narrativo troppo sbrigativo, dall’approssimazione nel personaggio del mentore-ricattatore alla troppo scarna manciata di sequenze nelle quali “il nuovo” Soane raggranella in quattro e quattr’otto un nuovo contratto e migliaia di euro da restituire. Ma sarebbe troppo severo attaccarsi a qualche piccolo problemino, giustificato peraltro in buona parte dalla natura di opera prima, perché Mercenaire è indubbiamente un film d’esordio vero: interessante, dignitoso, e soprattutto capace di unire famiglia e sport senza incorrere nella trappola quasi inevitabile della retorica. E, quest’ultimo in particolare, è un merito non certo da poco.
Marco Romagna