MENUS PLAISIRS – LES TROISGROS (2023), di Frederick Wiseman
Basterebbero forse le ciliegie da intingere una per una nel cioccolato fuso. Basterebbero forse i pesci rombo da sfilettare e poi da battere delicatamente a lama eseguendo in velocità e con totale naturalezza gesti dalla precisione millimetrica. Basterebbero forse i dolci a base di fragole e caviale, gli ortaggi a chilometro zero, i filetti semplici e lardellati, le lumache, i carciofi fritti che si dischiudono come fiori, le vongole da far aprire, le sac à poche, le decorazioni dei ravioli fatti a mano, o ancora le affumicature da eseguirsi direttamente in allevamento accuratamente selezionato, le salse con cui completare i piatti direttamente al tavolo, il carrello dei formaggi e i vini (biologici, biodinamici, rigorosamente millesimati) con cui accompagnare ogni singola creazione culinaria. Eppure i piatti completi non si vedranno quasi mai se non di sfuggita, in Menus Plaisirs – Les Troisgrois, con cui a novantatré anni compiuti il primo gennaio Frederick Wiseman, dopo aver realizzato sei ulteriori tasselli della sua inestimabile mappatura dell’America e la parentesi di finzione di Un couple, torna a documentare quella Francia da tempo suo Paese d’elezione a ben dodici anni dalla sortita parigina di Crazy Horse. Come a dire che a interessare sono ben più l’ideazione del piatto e la precisione di ogni tappa del procedimento per realizzarlo che il suo definitivo viaggio verso il tavolo del cliente, ben più la necessità di flemma e di ragionamento su ogni singolo dettaglio che la forsennata lotta contro il tempo su cui si basa ogni reality culinario. Anzi, se in quello che sin dalla pubblicazione della sinossi più o meno tutti si sono affrettati a definire “il Masterchef di Wiseman” qualche momento di foodporn, per lo meno sulla bellezza materica degli ingredienti, è assolutamente necessario (del resto l’estetica è parte integrante dei piatti di haute-cuisine, importante tanto quanto il sapore), è semmai la creazione continua, il motivo per cui lo sguardo, il metodo rigoroso e la costruzione drammaturgica in montaggio del grande documentarista di Boston hanno deciso di inoltrarsi nella cucina che da più tempo di tutte, ininterrottamente dal 1968, detiene le tre stelle Michelin massimo riconoscimento mondiale. È l’insistito confronto di assaggi e piccoli aggiustamenti, è l’abilità tecnica nelle preparazioni, è la capacità di adattarsi ogni singola volta alle esigenze di ogni cliente mantenendo la medesima qualità inarrivabile. E ovviamente è la questione di famiglia, generazionale, dinastica, ereditaria come spesso sono ereditarie la personalità e il talento creativo, che impegnano da quasi un secolo la famiglia Troisgrois nella ricerca e nell’abbinamento di sapori, nella complessità di ogni accostamento e di ogni presentazione, nel trasformare la cucina in superlativa opera d’arte, e necessariamente nel gestire economico e imprenditoriale, complicato, molteplice e multiforme, delle forniture, dei menu, delle brigate e dei camerieri di un ristorante iperstellato (e di altri due satellite). Dagli anni Trenta di Jean-Baptiste fondatore del ristorante-albergo che porta il cognome di famiglia al figlio Pierre, e da Pierre al figlio Michel, che ormai sessantacinquenne ha deciso, pur rimanendo ancora fra la cucina e la sala come supervisore, di lasciare la direzione del ristorante principale al primogenito e a sua volta chef César, mentre il più giovane Léo ha assunto la direzione del ristorante «di campagna» La Colline du Colombier, più informale e non (ancora) stellato, ma non inferiore né per qualità delle materie prime né per creatività in cucina.
Due fra le (per ora) quattro generazioni Troisgrois, che la macchina da presa di Wiseman coglie tanto nell’estro quotidiano con cui superare i propri limiti quanto nella pragmatica delle decisioni su provenienza e quantità delle forniture, tanto nell’insistita evoluzione della propria cucina quanto nella gestione delle brigate (lo chef da redarguire e da istruire per il futuro, le piccole indecisioni su una qualche preparazione prontamente risolte dall’enciclopedia Larousse, ma anche l’arringa generale del direttore di sala prima ancora di accendere i fornelli). Tanto nel lavoro dietro le quinte quanto nel sostanziale andare in scena di sala (si veda quando César rivendica e si intesta di fronte ai clienti un’idea del padre, ma anche l’ostentata disponibilità di Michel nello scherzare con i clienti esibendo i dessert). Tanto nello studio quanto nella passione, tanto nella tradizione quanto nella fantasia, tanto nella manualità quanto nell’inventiva. Tanto nel talento quanto nel più inaspettato e improvviso dubbio, risolvibile solo attraverso il tentativo, l’assaggio, la dialettica e il confronto. È per questo che parte dal centro di Roanne, la nuova esplorazione di Frederick Wiseman. Da quel Cafè Le Central aperto nel ’95 da Michel Troisgrois di fronte alla stazione ferroviaria come una dépendance a prezzi più accessibili in cui sperimentare nuovi menu, e ora perfetto punto di incontro, informale e tranquillo, fra il padre e i due figli, in cui discutere a pochi passi dal mercato cittadino di trucchi del mestiere e di sapori segreti, di migliori fornitori per ogni ingrediente e di zone di provenienza dei migliori pesci, di minuti di cottura e di idee da trasformare in una portata, già con tutte le possibili varianti, bella e buona nei colori intensi e nei sapori bilanciati. Ma è anche un altro, il motivo per il quale Wiseman sceglie di partire dal terzo ristorante di famiglia per poi spostarsi solo successivamente nel primo e nel secondo: l’irrinunciabilità per la dinastia di chef di mantenere un legame strettissimo con il centro della città storica sede di La Maison Troisgros, anche dopo che nel 2017, con l’investimento per l’acquisto di una magnifica villa circondata da campi e frutteti, dopo 86 anni in affitto Michel ha trasferito il ristorante principale in una nuova e lussuosa location otto chilometri più in là, a Le Bois sans Feuilles. Come se l’esistenza e il mantenimento stesso del Le Central nient’altro fossero per i Troisgrois che l’ennesima occasione per trovare un bilanciamento fra la tradizione e l’innovazione, fra la radicata storia (personale, sociale e culinaria) di famiglia e il continuo evolversi senza mai smettere di osare. Una politica perseguita con dedizione e passione ereditarie tanto nelle scelte imprenditoriali quanto in ogni singola creazione in cucina, e che Frederick Wiseman, con la consueta precisione millimetrica ed esaustiva del suo metodico osservare silenzioso (eppure così personale e dichiaratamente parziale nelle scelte, quando arriva il momento di cucire insieme l’immane mole di riprese, già a loro volta figlie della decisione di cosa inquadrare e cosa lasciare fuori campo, in una narrazione che sappia riassumere in quattro ore le sue sincere sensazioni da testimone di un periodo in un luogo e in una situazione) mette al centro dei duecentoquaranta minuti del suo ennesimo straordinario (capo)lavoro, ancora una volta presentato fuori concorso alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia che già nove anni fa lo aveva voluto definitivamente consacrare come assoluto Maestro con l’attribuzione del Leone d’Oro alla Carriera. Un film già a partire dal (doppio) titolo meno corale di altre volte (non è certo casuale la scelta di Wiseman di rinunciare al solito nome di luogo per concentrarsi piuttosto sulle persone, Les Troisgrois, premettendo quel piccolo gioco di parole con Menus plaisirs che significa sì “piccoli piaceri” ma in questo contesto non può che finire per legare questi piaceri ai menù culinari), e invece volutamente incentrato sulle due generazioni di chef protagonisti, nelle cui traiettorie intercettare ogni possibile aspetto, evidente o nascosto, della gestione di un ristorante stellato dai campi alla tavola, o se si preferisce dalla teoria di un piatto ipotetico alla soddisfazione dei clienti. Passando per un piccolo viaggio intorno ai sapori, in cui allargarsi all’intera filiera dei fornitori e alla sostenibilità ambientale con cui realizzano i propri prodotti, all’agricoltura biologica e alle temperature ideali per far cagliare e lavorare ogni formaggio, per poi tornare sempre sui gesti perfetti dei cuochi, sulla consistenza e sull’aspetto dei cibi, sulla maniacale cura di ogni minimo dettaglio in ogni singolo petalo di guarnizione. Sulla creatività in cucina, che giorno dopo giorno cerca e trova sempre nuove ispirazioni. Un’arte effimera su ceramica, complessa, tattile, molto difficilmente riproducibile, e proprio per questo così preziosa e così straordinariamente cinematografica.
Marco Romagna