MEKTOUB MY LOVE: INTERMEZZO (2019), di Abdellatif Kechiche
Ascoltate ora questo, o popolo stolto e senza cuore,
che ha occhi e non vede, che ha orecchi e non odeGeremia, 5:21
«Guardami» dice Charlotte ad Amin, mentre il protagonista dal mirino della sua macchina fotografica esplora finalmente il suo corpo e quella forma espressiva di sguardo, arte e desiderio di cui tanto sentiva il bisogno. La macchina da presa di Kechiche, con un dolce movimento a scendere, svela teneramente la nudità di Charlotte e la sua abbondante morbidezza, mentre il sole, iniziando la sua calata verso i leggeri lensflare e le più suggestive silhouette, si prepara lentamente per andare a dormire. L’estate del 1994 va avanti esattamente come (non) si era conclusa, e mentre i vari Tony, Ophélie, Céline e “zia” Camelia mangiano le ‘solite’ fragole sulla spiaggia mentre la luce cambia progressivamente fino al tramonto, i due giovani si sono segretamente fidanzati, andati via mano nella mano alla fine del Canto Uno e adesso su un tetto assolato di Sète – Charlotte che tutti pensano tornata a Nizza e che invece sorride nell’esporre all’emulsione la sua bellezza, e Amin che mentre in pubblico continua a fingere liaison con inesistenti turiste russe anche nell’intimità quasi non la guarda negli occhi, ma solo attraverso l’obiettivo. Non perché non riesca a ricambiare lo sguardo, non perché non voglia, ma perché non deve e non può. È una questione di ruolo, di Mektoub, di destino. È una questione di dicotomia fra guardare e vivere, di sguardo – umano e cinematografico – che per rimanere puro nell’osservare il flusso della vita deve necessariamente non partecipare fino in fondo a questo flusso, ma scartare di lato, tenersi da parte, rimanere alla giusta distanza. L’unico modo per non perdere la necessaria lucidità anche di fronte ai tormenti, ai tradimenti, alle illusioni, alle gravidanze indesiderate e alle delusioni che lo scorrere della vita e di un’estate giovanile inevitabilmente portano in dote. La soluzione non è certo diventare freddi, e anzi la partecipazione emotiva è fondamentale, ma è appunto il sapersi limitare all’osservazione, allo sguardo, a una curiosità che mai, nemmeno nel sesso più esplicito – e in barba alle inutili e onestamente ridicole polemiche alimentate dalla stampa francese di peggiore tradizione gaullista che si trincera dietro un moralismo populista per attaccare uno dei registi più importanti della sua generazione solo perché tunisino e libero fino alle scuse pubbliche (per che cosa?) a cui lo ha (scandalosamente) spinto il Festival di Cannes –, diventa ossessione morbosa. È lo stesso motivo per cui anche in discoteca Amin preferisce rimanere al bar piuttosto che lanciarsi in pista, preferisce rimanere a guardare chi balla (e twerka, e si seduce, e si sfiora, e si compiace, e smutanda sul cubo, e quasi dà vita alle frange di paillettes della minigonna, e allude, e magari guardandosi mentre mordicchia il bordo del bicchiere si passa il ghiaccio sulla pelle o la lingua sulle labbra fino al limonare più fugace e promiscuo, a tre, sentendosi e baciandosi a metà strada fra il gioco e la passione) fermando la sua lussuria sempre a qualche centimetro dalla pelle, dalla carne, dagli strusciamenti, dai baci, dal vivere. È lo stesso motivo per cui, nell’incipit di Canto Uno, era rimasto fuori dalla finestra a guardare, senza alcuna malizia o perversione ma semplicemente con l’occhio del regista, Ophélie e Tony che facevano l’amore. È lo stesso motivo per cui non conta quanto Amin sia desiderato, non conta quante siano le bellezze in fila per lui e non contano le sue effimere conquiste: il suo sguardo correrà sempre e solo verso Ophélie, quell’unico grande amore impossibile, quell’inesauribile musa da ammirare e non sfiorare mentre molti altri la possiedono anche mentre Charlotte, o magari la bellissima diciottenne parigina Marie appena rimorchiata in spiaggia e portata nel gruppo dal solito Tony, languidamente gli baciano le labbra, la fronte, il petto, il collo, e poi ancora la bocca. Il suo posto è appena fuori dal campo, a guardare la bellezza come libertà senza lasciarsi trascinare dal turbinio, ma anzi (già) ragionando su come metterlo in scena, su come filmarlo, o forse su come simularlo senza mai perdere la assoluta sincerità del suo sguardo. Di quello sguardo che aveva lungamente aspettato nella stalla di Ophélie il miracolo della vita e che lo aveva fotografato commosso, di quello sguardo che doveva necessariamente compiere il definitivo scarto di libertà passando dalle fotografie dei corpi nudi, dall’inquadrare e rendere atto creativo al contempo attivo e passivo il proprio desiderio. Di quello sguardo dal basso, che cerca di vedere il proibito e non proprio nel suo non fare nulla per nasconderlo annulla qualsiasi possibile perversione. «Guardami», clic, e l’amore per l’amore che espande e nutre l’anima di Rohmer incontra fino al perfetto punto di sintesi l’occhio liberamente erotico di Tinto Brass, forse alla ricerca dello stesso “specchio dell’anima”, di certo alla ricerca della stessa sconfinata sincerità nello sguardo autoriale, e dello stesso corpo soggetto e mai oggetto di desiderio e di passione. «Chi ha occhi non vede, chi ha orecchi non ode», recitano all’unisono la Bibbia e il Corano, ed è proprio qui che diventa ancor più necessario vedere e sentire.
È la definitiva radicalizzazione del discorso cinematografico che da sempre porta avanti Abdellatif Kechiche Mektoub, my love: Intermezzo; è l’estremizzazione, per molti versi sperimentale, della centralità assoluta dello sguardo nel suo cinema sempre più unico, prezioso, bigger than life. Quello sguardo, attivo proprio nella sua passività, di chi sublima sullo schermo il proprio occhio, il proprio istinto, il proprio atto di guardare come unica possibile liberazione dall’impotenza (nel trovare e riuscire realmente a catturare la vita vera) insita nel ruolo di qualsiasi regista (di finzione). Quello sguardo che – come dichiarato dal suo spasimare sui corpi in costume da bagno che sin dall’incipit in spiaggia è ancor più provocante che nel già esplicito Canto Uno – deve per forza essere anche voyeurismo, desiderio, insistenza sulle curve inguinali, sul loro movimento, su quello che (non) nascondono, sul loro fremere in un ballo che è vera e propria sessualità più ancora che sensualità, sudore e linguaggio del corpo, vestiti continuamente scostati a mettere in mostra un centimetro in più o in meno del seno o delle natiche, estatico baccanale di progressiva stanchezza, di piacere nel guardare e nell’essere guardati. Perché l’occhio e lo schermo sono impulsi, emozioni, ebbrezza, rapimento, sensazioni, ormoni che deflagrano si scambiano, e proprio per questo si ergono a così sconfinato realismo anche nella scrittura e nella messa in scena, nella consapevole esagerazione estatica di una serata di danza/orgia, nella costante riflessione sullo stesso concetto di “finto” che emerge chiarissima dal continuo mentirsi e dai ripetuti segreti (sessuali, sentimentali, di responsabilità) fra i protagonisti. È lo sguardo di Amin quello d(e)i Mektoub, my love, è quello di Kechiche, ed è inevitabilmente quello di un qualsiasi maschio eterosessuale, anche se ogni possibile accusa di male gaze viene immediatamente smentita dalla centralità assoluta delle donne, dal loro assoluto controllo di ogni situazione, dal puro e innamorato femminismo che è insito in una così oltranzista celebrazione della bellezza e dell’indipendenza/intraprendenza anche erotica, in cui anche l’orgasmo, magari difficoltoso da raggiungere nel cesso di un locale dagli «encore» all’«arrêt», è solo ed esclusivamente femminile. Ma soprattutto quello di Mektoub, my love è anche lo sguardo del pubblico che osserva ciò che è già stato osservato, quello del cinefilo che da sempre sogna e desidera attraverso uno schermo, che da sempre ri-guarda e si innamora dello sguardo, che da sempre cerca o sublima nelle vite altrui parte della sua vita, che da sempre si immerge nelle emozioni e nei desideri in cui identificarsi, in cui perdersi, in cui (ri)trovarsi solo e ipnotizzato nell’ennesimo rinnovarsi del suo atto del guardare. Forse perché anche la visione collettiva, così come la sessualità e così come la tensione erotica, è un qualcosa che ha sempre un lato privato, a volte nascosto e negato persino a se stessi. Un qualcosa che si ha quasi paura di guardare ed esporre, un qualcosa di cui si vergogna, e che invece è solo consapevolezza, desiderio, autodeterminazione: bramo ergo sum. Tanto che nemmeno chi si ferma alla superficialità di parte e anziché capire e analizzare un capolavoro di originalità, profondità e sconfinato coraggio preferisce fermarsi all’altezza della macchina da presa per gridare indignato contro “i culi”, come se i corpi in Kechiche a partire dal “problematico” feto che si muove nel ventre fino al più sfrenato strofinarsi danzante non fossero vita, morte, sguardo, danza, sesso, desiderio e purissimo cinema, è riuscito a staccare gli occhi nemmeno per un secondo dallo schermo. Per il semplice motivo che non si possono staccare gli occhi dallo schermo, persi nel flusso anche quando la rarefazione di Kechiche diventa quasi negazione, sospensione assoluta che ragiona sulla sospensione assoluta, Intermezzo di nome e di fatto in cui la trama è praticamente assente, in cui la location è in sostanza solo una per oltre 180 dei 212 minuti, in cui buona parte dei (non molti) discorsi vertono sulla pura superficialità della giovinezza, e in cui il tempo, quel tempo dilatato, accorciato e spezzato da ellissi, reiterazioni e danze, ridiventa l’unità aristotelica di una nottata incapsulata in un luogo/non-luogo in cui tutto nasce e muore nello spazio di poche ore, conscio che non uscirà mai da quelle mura e da quella notte di folleggiante, diversivo, fugace, persino sproporzionato piacere. E non è certo un caso, in questo senso, che quando Tony e il cugino Aimé con la stessa tattica sfacciata e con le stesse mosse che già avevano portato nel gruppo/famiglia le nizzarde Charlotte e Céline avvicinano in spiaggia Marie (che da buona diciottenne alla scoperta della propria sessualità e della propria libido saprà ovviamente dimostrarsi la più assatanata e maliziosa della serata), lei stia leggendo Le tonneau de Diogene, raccolta di miti filosofici che già dal titolo, con quella “botte di Diogene” che già da sola è sospensione, Intermezzo, bolla in cui rimanere protetti per lo meno per una notte, dichiara lampanti le intenzioni teoriche del film di Kechiche e il ruolo metaforico della discoteca che ne riempie quasi tutto lo scorrere. Un momento in cui è lecito fantasticare, sperimentare, sentirsi liberi di essere desiderati/desiderate e di desiderare, rimandando i problemi – e la narrazione – al prossimo sorgere del sole, in un naturalismo che è al contempo astrazione, rottura, distacco dalla realtà, perché l’unica realtà possibile è ormai quell’estasi sublimata sullo schermo, quella del regista, quella dello spettatore, quella di chi guarda preferendo l’identificazione all’impersonificazione.
Si entra apparentemente per caso nei film di Abdellatif Kechiche, per destino, per congiunzione astrale, per Mektoub, alto e basso, sole e luna. Per il trovarsi nel momento giusto al posto giusto, in mezzo a quell’attraversamento pedonale in cui sconvolgere con un solo sguardo La vie d’Adéle, in quel locale in cui si cucina(va) il Cous cous, oppure su quella spiaggia di Sète dove Tony come al solito fa il cretino. O ancora in quella sala cinematografica in cui rispondere presente all’invito a una serata, in cui entrare a far parte di quel conviviale gruppo di amici per ballare e guardare con loro, per condividere – rigorosamente dalle 22 all’1 e mezza passata, orari di proiezione chiesti espressamente da Kechiche – uno sguardo che da sempre cristallizza la vita a 24 fotogrammi al secondo, e che questa volta più che mai la scandisce in quattro quarti. Tutti fatti, come di consueto o forse sempre più, di invisibili eppure chiarissime dinamiche che inevitabilmente cambiano e costantemente si ridiscutono con l’ingresso in discoteca dell’uno e dell’altro personaggio, di sospiri, di sguardi, di seduzioni, di voglie, di intese, di parole, di silenzi, di fraintendimenti, di dolcezza, di gambe, di dita, di ombelichi, di muscoli e di occhi che incrociano, commentano e invidiano strabordanti deretani. Tutti fatti di veridicità e di finzione, di un realismo che deflagra sconfinato anche nel confine con l’onirico, nei neon blu contrastati di smalti arancioni, nella trance delle luci, nei cromatismi, nei corpi, in quello sguardo che è desiderio e volontaria, e necessaria, esclusione dalla vita. Forse non sarebbe nemmeno dovuto esistere, Mektoub, my love: intermezzo. Un film in cui l’abitudine festivaliera di Kechiche di concludere il montaggio immediatamente prima della proiezione presentando il film in copia-lavoro senza titoli di testa né di coda acquisisce più che mai un senso per il quale probabilmente, questa volta, i titoli non verranno mai aggiunti perché non avrebbe senso farlo. È giusto che sia così, una sospensione, un aprire e chiudere le palpebre. Un Intermezzo, appunto, che riparte dai frammenti sparsi del Canto Uno e li rende pura e mesmerica teoria cinematografica sull’esclusività dello sguardo e sul concetto stesso di sospensione, bolla di una notte in attesa della nuova inevitabile alba, del Canto Due che non potrà che riportare alla necessità di nuove e definitive scelte. Forse è un’idea venuta a Kechiche solo dopo aver presentato Canto Uno a Venezia, una volta partito con il montaggio della seconda parte, di fronte a una montagna di ore e ore di girato di fronte alla quale scoprire la reale possibilità di montare un film impossibile, un caleidoscopio esperienziale inedito e stordente, magico, stupefacente: una scena in testa per riallacciarsi a Canto Uno, una mezzoretta in spiaggia di stordente e inspiegabile bellezza con cui reimpostare i discorsi lasciati in sospeso e inserire l’unica reale novità narrativa, ovvero la gravidanza di Ophélie incinta del bugiardo seriale Tony e la sua indecisione sul da farsi sempre in attesa del ritorno del promesso sposo dalla missione di guerra, e prima di un breve finale con cui tendere la mano al Canto Due un’unica enorme sezione Intermezzo delle oltre tre ore di un’unica serata in discoteca, interrotte solo da un altro fondamentale intermezzo (narrativo, concettuale, sentimentale, orgasmico) di oltre tredici minuti, con Ophélie che accetta di farsi praticare quel cunnilingus non simulato nei bagni del locale che è così centrale e fondamentale nel discorso di Kechiche sullo sguardo/desiderio, e che invece è così facilmente diventato il pomo della discordia su cui la nutrita (e onestamente incomprensibile) schiera di detrattori, dal sindaco di Cannes in giù, hanno montato una delle polemiche più sterili e tendenziose di cui si abbia memoria. Anzi, è proprio l’utilizzo di un linguaggio così consapevolmente vicino a quello della pornografia amatoriale che annulla ogni possibile accusa di pornografia allo sguardo di Kechiche/Amin. Il cunnilingus prima proposto (con straordinaria gestione dell’erotismo verbale da parte del Kechiche sceneggiatore) da Aimé «come ultima occasione prima del tuo matrimonio» e rifiutato con sdegno da Ophélie, e solo successivamente, nello sviluppo della serata, consumato su iniziativa della ragazza probabilmente ispirata dagli strusciamenti altrui, è una digressione sporca e nello sporco, rabbiosa, sofferta, in cui è proprio la durata scientificamente eccessiva nelle posizioni più scomode e l’eccesso nel voler dare un piacere che tarda ad arrivare a diventare sostanziale frustrazione, riportando a quella necessità di guardare rimanendo a un passo dalla vita, a un centimetro dal non (o per lo meno non reale) piacere effimero e proprio per questo fragile. Ma che non può non fare parte della costante danza che è quella vita su cui lo sguardo si posa, nella specularità fra i gemiti un po’ forzati di Ophélie che emergono sulla musica tamponata dalle pareti del bagno e i gemiti fasulli che fanno parte di un brano della musica diegetica pompata nelle casse dall’invisibile dj: che sia mitomania o mitologia, sempre di «raccontare una storia» si tratta, e di prendersi le responsabilità nel farlo. Quelle responsabilità che non vuole prendersi Tony che pure vorrebbe, nella sua superficialità, tenere il bambino, e quella responsabilità autoriale chiarissima che invece si prende Abdellatif Kechiche realizzando un film teoricissimo e radicale, potenzialmente respingente nella sua apparente assenza di filtri, e invece così perfettamente ragionato nelle sue necessarie reiterazioni e nel suo costante lavorare sul confine della noia per poi reimmergere nella danza e in tutto il sesso/vita/morte che contiene, nel flusso, in quel costante intrecciarsi di discorsi seri e inutili che qualcuno chiama quotidianità, o forse estate. Ben al di là dell’inno alla vita, ben al di là dell’inno alla bellezza, ben al di là dell’inno allo sguardo. Nessuno sa cosa ci sia scritto sul bigliettino che Amin ha lasciato a Charlotte al momento del risveglio. Probabilmente l’ha lasciata, o forse semplicemente la aspetta da qualche altra parte, ancora in segreto. Come nessuno può ancora sapere se in Canto Due Ophélie, consapevole di poter contare sull’aiuto e sul silenzio di Amin, deciderà di andare per davvero ad abortire a Parigi oppure no. Di certo la notte è finita, l’Intermezzo è concluso, bisogna per forza affrontare la luce, magari confondendosi nel riflesso della città che torna a brillare. Bisogna per forza ricominciare a vivere, o per lo meno a guardare chi sta realmente vivendo. Anche se c’è inevitabilmente chi, nell’attesa spasmodica della prossima parte, preferirà rimanere ancora per un po’ qui, in discoteca, nell’Intermezzo, nella pura e sublime energia della sospensione, nella riflessione, anche necessariamente autoanalitica e mai così consapevole, sullo sguardo, sui rapporti umani, sul ruolo del regista, dello spettatore, del cinefilo, dell’innamorato. Sballottati dal destino, e ancora tramortiti da uno dei film più importanti, complessi e incompresi del decennio.
Marco Romagna