Le ruote di un carro che cigola, mosche, il vento che sposta la sabbia, scalpiccio degli zoccoli, la bocca impastata di sete e le mani polverose. È sull’onda di questa sensazione che Kelly Reichardt racconta l’epopea del West con Meek’s Cutoff, presentato al tempo nella selezione ufficiale della 67esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia e adesso, dodici anni dopo la sua realizzazione, proiezione speciale di Cannes75 in occasione del premio alla carriera che la regista americana riceve nella 54ma Quinzaine des Réalisateurs. Un film che è ennesimo esempio della riuscitissima sinergia creativa con Michelle Williams già iniziata nel 2008 con Wendy e Lucy, racconto di una senzatetto diretta in Alaska per cercare fortuna con il suo cane, proseguita con il personaggio della risoluta madre di famiglia in Certain Women e continuata fino a oggi con Showing Up – che arriverà fra pochi giorni in concorso proprio in questa 75esima edizione del Festival di Cannes – in cui Williams interpreterà una scultrice risucchiata dalla sua vita caotica. Nel film del 2010, invece, l’attrice è la giovane Mrs. Tetherow, imbarcata in un’impresa forse suicida da quando attraversa il deserto dell’Oregon con il marito e altre due famiglie di coloni sotto la guida del pioniero Mr. Meek, il personaggio reale che nel 1845 si era perso con un gruppo di migranti che stava accompagnando attraverso le Cascades Mountains lungo una tratta non ancora testata, da allora nota come il “sentiero di Meek”, che avrebbe causato la morte di una ventina di persone.
Come spesso nel cinema della regista, l’opera di sofferma sull'”in between” in quanto evita il momento epocale e forse l’azione nel senso più lampante o drammaturgicamente più accattivante del termine, e risucchia il pubblico in quelle interminabili attese che sono i tempi che riempiono – o meglio svuotano – i momenti di eccitazione, proponendo dunque una versione estremamente personale e moderna del Western, in linea con la sua poetica. Se nella celebre intervista con Truffaut Alfred Hitchcock dichiarava che «il cinema non è una fetta di vita ma una fetta di torta», capiamo bene come per la regista indie americana sia l’esatto opposto. Per lei il cinema è un’arte che investiga il tempo, che si inserisce tra le pieghe del presente per fare sgorgare la bellezza da lì con naturalezza, come d’altronde si poteva già notare in Old Joy (2006), nel già citato Wendy e Lucy e nel magnifico First Cow (2019). Sono racconti dell’Oregon, che per quanto apparentemente inconciliabili, ambientati in epoche diverse e incentrati su personaggi agli antipodi, di fatto si richiamano e si rincorrono e parlano a tutti perché affrontano i topoi del racconto umano per eccellenza: il viaggio (in automobile, in un carro, a cavallo o a piedi poco importa), le amicizie (tra due vecchi compagni, tra una donna e un cane o tra due avventurieri squattrinati), la quête – ricerca dell’oro in senso lato o di se stessi, spesso anzi in parallelo. Ma sono anche racconti del nostos, il ritorno o meglio il dolore per il ritorno (letteralmente la nostalgia) che può essere il ricordo di un infanzia difficile, l’abbandono del proprio amato animale con la promessa di ritornare un giorno o un semplice sguardo all’indietro, a vedere quello che si era e forse non si è più, perduti, seppelliti in noi stessi, abbandonati al (e dal) peso dei giorni che scorrono sotto i piedi come un tapis roulant.
Sono cronache di spleen, di attesa, di un tempo che sembra scorrere diversamente nel momento in cui iniziamo a farci caso e a prestare attenzione al rumore dei passi, delle foglie, dell’acqua, delle ruote, degli animali, dei sospiri umani, e che come per magia assaporiamo meglio quando sono esterni a noi e li guardiamo attraverso il filtro della riproduzione cinematografica. Per questo è una regia che ingaggia a doppio livello: se i personaggi soffrono di sete e di fame e sono sporchi e annoiati e spaventati e cotti dal sole, e annientati dalla cafard come i soldati in guerra, noi godiamo. Eh sì, se da umani empatizziamo con il disagio dei nostri simili, da spettatori traiamo goduria per quello stesso concetto di fotogenia espresso molto semplicemente da Epstein quando teorizzava l’accrescimento morale che il filtro dell’immagine in movimento dona agli stessi oggetti quando, dalla vita reale, questi vengono riprodotti in cinema.
Ma il filtro dell’immagine di Kelly Reichardt non è per questo motivo semplicemente estetico, perché non ricorre a scorciatoie per conquistare l’osservatore confondendolo con il piacere degli occhi. Semmai è estatico. Meditativo ed essenziale. Tanto che il film non solo a livello narrativo ma anche visivo nega le classiche suggestioni di genere del western, per cui il paesaggio non è messo in rilievo dall’epica delle panoramiche così come i personaggi non sono esaltati da nessuna retorica stilistica eroica e preconfezionata, e proprio per questo ci appaiono così quotidiani e non iconici, persone e non tipi, profondamente veri. Senza bisogno di alcuna frase ad effetto per riempire il cammino o i momenti di pausa, inghiottiti dal crepuscolo ricorrente in una regista che orgogliosamente rifiuta l’utilizzo di luci di scena. I dialoghi sono ridotti all’osso, giusto quelli essenziali, perché in fondo non c’è molto di cui possa parlare un gruppo di persone quando a mano a mano realizzano di essere perdute nel deserto, con i pochi viveri destinati a finire presto. Giusto scambiare due preghiere, un battibecco, un ricordo: ciò che rende quest’opera prima di tutto esistenzialista, astratta e collocata in un tempo che potrebbe essere tremila anni fa come tra quattromila anni. Abbassando i toni e destrutturando un intero genere nella sottrazione, la regista innalza Meek’s Cutoff a uno stato superiore in cui l’arte è esaltazione della verità del percorso umano – della fatica del percorso umano – e la finzione diventa quasi una paradossale e possibile testimonianza documentaria. Questo in qualche modo rafforza la sua valenza politica, e ancora di più permette di arrivare all’osso delle grandi ingiustizie della storia rendendole accessibili a pelle, con la semplicità con cui si racconterebbe a un bambino. Lontani da sparatorie e bagni di sangue, praticamente senza parole e en passant come un discorso laterale, il film racconta il colonialismo come quello che è: sfruttamento, xenofobia, prepotenza, piccolezza, patriarcato, e lo fa semplicemente attraverso le interazioni silenziose del gruppo con quel misterioso uomo indiano catturato, che non si sa se uccidere o tenere in vita perché potrebbe condurli all’acqua. Lo stesso uomo che nel finale vediamo camminare in lontananza mentre abbandona il gruppo alle sue tensioni irrisolvibili, ai suoi dubbi, alle sue cecità, eppure vicino all’albero della speranza.
Non è un viaggio verso e attraverso l’orrore, questo cammino forse verso la morte forse verso la vita – e quindi comunque verso la morte. Non è un immergersi negli inferi alla Apocalypse Now per trovare la deformità dentro di sé, ma quello attraverso il sentiero di Meek è più un galleggiare nella notte delle incertezze, dilaniati dai dubbi, scoraggiati dalla stanchezza e affaticati dalla solitudine, ognuno catturato a sua volta all’interno del proprio cammino. Basta la prima giornata sulla Croisette, perché Kelly Reichardt ci ricordi con sincerità e senza fronzoli che cosa significhi stare al mondo. E chissà se, oltre alla Carrozza d’Oro, fra due settimane tornerà a casa anche con qualcos’altro…
Bianca Montanaro