È prima di tutto un sublime gioco d’amore e di fantasia che annulla ogni tipo di distanza geografica e creativa fra un genitore e una figlia, Maya, donne-moi un titre. «Un film de mon papa», come affermerà nel finale la stessa Maya Gondry con tutta la tenera e vispa innocenza dei suoi nove anni, che però è a tutti gli effetti fatto di piccoli «film de Maya», nei quali tocca da sempre a lei suggerire un titolo e al padre regista Michel inventarci sopra una storia nella quale renderla protagonista di un breve e casereccio cartone animato da realizzare per lei più o meno in solitaria, fra ritagli, scritte e personaggi di carta snodati da muovere a mano su più livelli, con la tecnica del cut-out. Un’abitudine interattiva, e un avvicinarsi fino a cercare di coincidere del fantasticare di un padre eterno bambino con quello della sua piccola, iniziata quando la bambina aveva solo tre anni e Michel Gondry era spesso costretto a lasciare la Francia per i propri impegni di lavoro negli Stati Uniti, e poi portata avanti nel corso del tempo come un personalissimo rito familiare, come la commovente genuinità di un legame, come una (sempre) nuova e letterale declinazione de L’arte del sogno, adattando ogni volta le direzioni della sempre pantagruelica creatività paterna al progressivo cambiare e ramificarsi dell’immaginario di Maya, al suo percorso di crescita, all’inevitabile e costante aumentare del suo bagaglio di esperienze e di passioni, e quindi di ideare. Come se ogni titolo e ogni relativo e rudimentale cartone a 12 fotogrammi al secondo, cercando ancora una volta il candore abbacinante della luce eterna di una mente pura (senza che questa volta alcuna distribuzione possa massacrarla cambiando il titolo di Eternal sunshine of a spotless mind in Se mi lasci ti cancello) per tradurla in storia e immagini attraverso il lavoro analogico e anzi prettamente manuale sulla materia, segnassero in qualche modo una tappa della sua vita e dei suoi pensieri, nel crescere e nel cementarsi di un rapporto umano speciale e bellissimo fra un padre artista e quella figlia bionda e dolcissima che gli strappa il cuore a ogni «je t’aime», e che al momento del (temporaneo ma forse inevitabile) rifiuto, quando (inter)romperà il gioco dicendogli di non volere più cartoni animati, lo getterà nel più assoluto shock e smarrimento salvo poi riempirlo di gioia quando ben presto tornerà sui suoi passi per chiedergli di ricominciare a inventare insieme.
Del resto basta una minima suggestione da cui partire, alla fervida immaginazione di Gondry. Una scintilla, rigorosamente fornita da Maya, su cui aprire una (sempre) nuova pagina fra quelle (non certo a caso bianche, e proprio per questo potenzialmente infinite) del Libro delle soluzioni. Fra un Terremoto di cui non avere paura perché consapevoli di essere fatti di carta in un mondo di carta (magari provocato proprio da Michel Gondry con il frastuono della sua batteria, ma basterà suonarla in reverse per annullare l’apocalisse e far tornare tutto come prima) e il tesoro degli abissi da trovare in Maya sirena nuotando tra pesci-orologio e gemme in grado di dare loro la parola. Fra il ritrovarsi tascabile di Maya fa il bagno e il sogno di costruire un aereo per librarsi nel cielo de Gli uccelli volano. Fra il disastro ecologico di ketchup finito in mare al quale rimediare lanciando patatine fritte con cui asciugarlo dalla Tour Eiffel, una partita di amache da vendere ai vacanzieri ma minacciata dagli scoiattoli e una scatola cinese apparentemente infinita di livelli di falsi/veri ladri e poliziotti, magari felini o comunque animali magici. Ma anche passando per un’unica storia in cui la protagonista ed eroina non sarà realmente Maya ma la mamma in viaggio andata e ritorno per la Svezia, mentre la bambina rimane felice con il papà e i nonni in attesa di poterla riabbracciare. Elementi di un film, uscito lo scorso ottobre nelle sale francesi e ora in prima internazionale nella sezione Generation della 75ma Berlinale, nel quale vale tutto, senza alcun tipo di limite all’immaginazione e all’invenzione, senza che la logica, l’illogicità, il possibile o l’impossibile possano in alcun modo interferire con la purezza dello slancio creativo. Semplicemente, quello che si può sognare (e quindi disegnare) può accadere sullo schermo, magari bidimensionale nelle sue figure di carta che interagiscono su fondali di carta (e magari si strappano e ricompongono perfettamente consapevoli della loro natura), ma non per questo meno vibrante nella realizzazione artigianale e nella profondità del legame d’amore purissimo da cui Maya, donne-moi un titre nasce e su cui si sviluppa nel corso degli anni.
Un primo titolo di poco più di un’ora, al quale ne seguirà di sicuro un altro già annunciato in cui saranno i bambini della scuola di Maya incaricati di realizzare i disegni da animare e forse un terzo ancora diverso e ancora tutto da progettare, fatto sì del bisogno che hanno i figli dei genitori ma soprattutto di quello che hanno i genitori dei loro figli, e che nel decidere di riorganizzare in forma di lungometraggio e pubblicare video realizzati inizialmente solo per Maya trova una sostanziale dichiarazione universale dell’affetto paterno-filiale, della creatività e del sogno condiviso. Una costante esplosione di colori e di un estro fatto di migliaia di disegni, di tavoli trasparenti, di collage, di fumetti, di parole-chiave, di mani che entrano in campo in jump-cut per muovere fisicamente le immagini in attesa di sviluppare definitivamente la tecnica in stop motion con cui non doverle più mostrare. Ma anche di personaggi di famiglia, di animali veri e leggendari, di presidenti francesi e belgi, di imprenditori di patatine fritte che cambiano business, di salvataggi di neonati su un tetto mentre la città sta crollando, di rifiuti categorici della tristezza e della paura, e di forbici con cui poter tagliare perfino il nucleo del centro della terra aprendosi una via di carta nella carta. Fra la commedia, il disaster movie, la fantascienza, il documentario, il film d’avventura, il romanzo di formazione familiare, la pura fiaba. Fino ai brevi raccordi live action in cui è la stessa Maya, mentre passa il tempo e la cucina di casa Gondry da spoglia si fa sempre più arredata, a intervenire per suggerire il successivo titolo al padre. Il risultato è un lavoro piccolo e dolcissimo, irresistibilmente poetico e commovente nella sua semplicità e nel suo continuo e sognante inventare, che dal primo all’ultimo frame scava fino al cuore della tenerezza dell’infanzia e lascia deflagrare nemmeno troppo in filigrana i sentimenti e le vibrazioni emotive di un padre dalla fantasia incendiaria e di una figlia piccola che giocano insieme al cinema, come nuovi Microbo e Gasolina legati da un qualcosa di troppo forte e troppo bello per non finire per immaginarlo insieme su uno schermo.
Marco Romagna