Assomiglia un po’ al ciclo vitale di una farfalla, il lavoro dell’attore. Un paziente susseguirsi di fasi e di attese, di progressive immersioni in un’altra identità e in un’altra personalità da studiare e lasciare pazientemente germinare al proprio interno, a cercare di capirla, incarnarla, viverla, sentirla maturare fino a ritrovarsi a esserla, nell’intimità, nel modo di pensare, di parlare e di agire, nei movimenti più impercettibili del corpo, nelle emozioni, nei desideri, nei sentimenti. O magari a rendersi conto di non poter esserla, perché alcuni misteri dell’umano sono insondabili, incomprensibili, impossibili da rappresentare forse perché già a loro volta (in)consapevole rappresentazione di una normalità (ir)realizzabile. Eppure in qualche modo va comunque portata a termine, la metamorfosi. Va comunque trovata una personalità da incarnare, e con cui cercare, se non proprio una sostanziale sostituzione, una messa in scena che forse è alla fin fine più vera della vita quotidiana, più sincera e passionale di una realtà così confusa e inevitabilmente sfumata nella (auto)menzogna che a guardarla bene nient’altro è ormai che un film. Una metafora che May December suggerisce sin dai titoli di testa, pronti a detonare fra fili d’erba, fiori, bruchi e ali di farfalla, mentre nella casa sul lago della Gracie di Julianne Moore, ex-insegnante con il suo marito più giovane di oltre vent’anni e i loro figli ormai a un passo dalla laurea, si attende trepidanti l’arrivo della superstar Elizabeth Berry (Natalie Portman) che la dovrà interpretare nel biopic seriale televisivo che di lì a poco racconterà la loro storia, lo stigma sociale che dopo 24 anni insieme ancora li accompagna come persone e come famiglia, i primi figli insieme nati con lui suo studente appena tredicenne e lei in carcere per la sua relazione adulterina e pedofila. Un nuovo lavoro con cui il sirkiano di ferro Todd Haynes ritorna a partecipare al concorso principale del Festival di Cannes, ma soprattutto ritorna, nel suo ondeggiare fra i generi dopo le non irresistibili sortite nel thriller economico e nel documentario musicale di Cattive acque e The Velvet Underground, a lambire in qualche modo le traiettorie del melodramma, anche se questa volta la sceneggiatura, a firma di Samy Burch, punta a un qualcosa di diverso dal solito, per molti versi ai confini dell’horror psicologico, che preferisce guardare alle doppiezze, ai tabù, alle cronache da tabloid, ai thriller pruriginosi degli anni Ottanta e alle torbide iperboli delle soap opera per ragionare sull’identificazione e sulla costruzione di un’identità scavando nel loro lato più morboso. Mettendosi alla ricerca non tanto della commozione dei sentimenti quanto della teoria cinematografica sulla vita e sulla sua (possibile/impossibile) recitazione, e non tanto della potenza espressiva delle immagini, fotografate questa volta dai chiarori abbacinanti di Christopher Blauvelt anziché dalle consuete ombre e dai riflessi notturni del consueto sodale Ed Lachmann, quanto del continuo depistaggio e della creazione di un mistero che non può avere soluzione, in un crescendo hitchcockiano in cui il MacGuffin nient’altro è che la recitazione, e quindi il cinema, come psicanalisi, come relazione interpersonale, come terapia d’urto non necessariamente catartica ma al contrario sempre più scomoda, invadente, potenzialmente devastante, capace di portare a galla le ambiguità e i cedimenti strutturali che la quotidianità continua a dissimulare e a nascondere persino a chi li vive. Rivelando loro forse per la prima volta come la felicità fosse di cartapesta, (in)consciamente costruita e ostentata più che realmente vissuta, per cercare una legittimazione del (letterale) crimine non solo morale sfumando le intere proprie esistenze sul crinale fra desiderio e amore, fra realtà e messinscena, fra storia e vita. Un film complesso e bergmaniano (ma in filigrana, oltre all’ovvio Persona, sembra apparire anche qualcosa di Cronenberg, in quel personaggio narcisista e isterico di Julienne Moore che per molti versi ricorda la sua attrice in Maps to the Stars) in cui Haynes non insegue tanto il dramma già al centro di Far from Heaven e Carol, quanto una costante tensione, sia erotica (omo, etero, pansessuale, fino a quel fulmineo e probabilmente inevitabile amplesso adulterino) sia latente nell’attesa di una rivelazione destinata a non arrivare mai, e la lascia scorrere gradualmente sotto la superficie di ogni immagine e di ogni gesto, nell’uso insistito delle musiche (che, probabilmente non per caso, ricordano abbastanza da vicino quelle composte nel ’71 da Michel Legrand per Messaggero d’amore di Losey) e negli sdoppiamenti degli specchi, nei monologhi di prova e poi sul set in cui cercare quella sensualità seduttiva che ormai la vita vera sembra avere smesso di garantire, negli sfioramenti sulle labbra per truccarsi fino a quando la somiglianza e l’immedesimazione non diventano sin troppo inquietanti, come una vampirizzazione che si appropria di una vita altrui, o che magari si renderà conto dell’impossibilità di farlo perché la realtà di questa vita nemmeno esiste, scardinata dall’evidenza di come la sua normalità nient’altro fosse che una finzione. Del resto, che cos’è la realtà? Che cos’è la rappresentazione? Che cos’è vero, falso, menzognero, costruito?
È in questo senso che May December è una sorta di crisalide, nella quale entra l’attrice e, dopo il tempo passato insieme alla donna che dovrà interpretare, esce la protagonista del film, in grado di percepire nelle proprie viscere (e magari a volte e non certo per caso dover dissimulare anziché simulare, come quando nelle scene di sesso «scatta una chimica che supera la finzione» ma la troupe non deve accorgersi della reale eccitazione degli attori, risponderà a esplicita domanda Elizabeth nel corso dell’incontro con i ragazzi della scuola) che cosa non funziona e che cosa è invece reale nella sua performance, o ancora che cosa è oramai un mero residuo di convinzione (o forse direttamente una nuova convenzione, di dettame borghese in cui fingere fino a sfumare del tutto il confine fra la lussuria e il sentimento) di una vita passata al microscopio per capire come farla rivivere nella sua messa in scena. O forse per rendersi conto dell’impossibilità di farlo, di penetrarne l’insondabile, e di poter andare oltre un’incarnazione effimera, destinata a brillare ma a durare giusto lo spazio di qualche ciak, breve e narcisa come la vita di una farfalla. Una vera e propria indagine, quella condotta dal personaggio di Natalie Portman, che si immerge nella quotidianità della persona da trasformare in personaggio e nelle fragilità della sua psicologia, nella sua ingenuità («la naïveté è un dono, l’unico modo per vivere felici», dirà apertamente Gracie) e nella sua piena e totale convinzione della legittimità delle sue scelte passate, nella sua assoluta mancanza di vergogna o di rimorsi per il precedente marito e il figlio di primo letto lasciati per amore di quello che al tempo era un bambino e nell’insicurezza di una vita familiare vissuta da sempre contro tutto e contro tutti, nell’abbandono delle rispettive famiglie e nello stigma sociale, nel ricordo del periodo in prigione e dei paparazzi assiepati di fronte a casa, nelle sue crisi di pianto e di nervi ogni volta – basta che venga annullato un ordine per una torta – che il suo mondo protetto e fatato sembra dare un minimo segno di cedimento. C’è la sua casa, c’è la sua famiglia che fa tutto quel che può per ostentare la sua unione, ci sono i suoi figli che crescono, ci sono i vecchi articoli di giornale che parlano della sua storia, ci sono le sue vecchie lettere da qualche parte fra la seduzione e la manipolazione (conscia? involontaria? «Sei tu che mi hai sedotto». «Avevo tredici anni»). C’è l’attuale lavoro come radiologo del marito «unico mezzo sudcoreano del quartiere» e adesso trentaseienne Joe, c’è la sua autopercezione non come la vittima manipolata delle narrazioni scandalistiche ma come uomo consapevole e felice destinata ad adombrarsi dei primi dubbi, e c’è la sua emblematica passione per l’allevamento delle farfalle nel progressivo sgretolarsi delle sue certezze fra il ritorno del desiderio e dei deja-vu. Ci sono gli incontri di Elizabeth con i membri della vecchia famiglia che Gracie non ha avuto scrupoli a sfasciare, e ci sono i sospetti, o forse semplicemente le malelingue, che dietro ai suoi comportamenti si possa nascondere chissà quale trauma passato. C’è la sua vita che è già una storia, e c’è la sua personalità da studiare, sviscerare, tentare di comprendere nell’intimo, fino a un’identificazione in cui non c’è spazio per un giudizio morale nemmeno quando espressamente richiesto, c’è solo il bisogno di capire, di sovrapporsi, di tentare di provare le medesime emozioni, di rivivere e perdersi nelle medesime ambiguità, di ripercorrere i medesimi dubbi esistenziali. Carpendo progressivamente nuovi dettagli, ma anche finendo per prendersene la vita, assorbendone e inevitabilmente sbattendole in faccia la sua mentalità, il suo modo di parlare, il suo trucco, il suo portamento, le sue complessità, i suoi misteri, le sue mire, la sua capacità di tradire. Le crepe difficoltosamente dissimulate, in primo luogo a se stessa, nella creazione di una felicità (im)possibile, fatta di gioie, dolori e contraddizioni, fatta di un giovane uomo-maggio che era probabilmente troppo piccolo nel momento in cui la sia vita è cambiata e si è ritrovato a dover crescere troppo in fretta (emblematica la bellissima sequenza in cui quasi rischia di cadere dal tetto dopo avere per la prima volta nella sua vita dato qualche tiro a una canna con quel figlio che sembra quasi suo coetaneo) e di una matura donna-dicembre che non è né solo un mostro né solo una vittima, ma una personalità complessa, contrastata e stratificata, intimamente frantumata dai propri traumi e dalle proprie (in)certezze, dal cortocircuito fra le proprie colpe nascoste sotto la sabbia e dalle proprie legittime rivendicazioni sentimentali che la società non riesce ad accettare nemmeno dopo un quarto di secolo, e che forse pure nel chiuso della camera da letto iniziano ormai a scricchiolare nel germinare del seme del dubbio. Confusa, muta, impossibile da sondare in maniera univoca, con la stessa miscela di gioia e alienazione del giorno dei diplomi, la commozione al momento della proclamazione e il silenzio nel momento in cui ci si rende conto che il tempo è ormai passato, che l’innocenza è ormai svanita, che le certezze non sono più così granitiche, e che non c’è più spazio per le illusioni. Solo per un veloce saluto, e poi per l’eterno ritorno (meta)cinematografico di una scena da ripetere fino a quando non diventa più potente, più erotica, «più reale». Vera come la finzione, falsa come la vita. In un percorso che non è mai diritto, ma sempre a zig zag, rotondo, concentrico. Proprio come il volo di una farfalla che ha abbandonato il suo bozzolo, ed è ora pronta a esibire (sullo schermo) i suoi colori sgargianti di una morte annunciata.
Marco Romagna