MATTHIAS ET MAXIME (2019), di Xavier Dolan
Prima di tutto c’è, o forse sarebbe meglio dire c’era, il The Death and Life of John F. Donovan. Un film costato oltre 30 milioni per guadagnarne meno di 5, che nelle intenzioni di Xavier Dolan sarebbe dovuto essere il suo definitivo salto di qualità con il passaggio agli Stati Uniti e alla produzione anglofona con cast stellare, e che invece a torto o a ragione lui stesso, dopo la lunga e sofferta postproduzione a cambiare ripetutamente in corsa fino a tagliare del tutto la protagonista Jessica Chanstain, considera non riuscito al punto di averlo negato persino a Cannes, quel Festival che, proprio a causa delle sue lamentele per le stroncature (ingenerose, ma fanno parte del gioco e comunque non è questo il punto) uscite prima della proiezione ufficiale di Juste la fin du monde a “rovinargli” il tappeto rosso, pur di poter avere di nuovo il talento franco-canadese già dallo scorso anno aveva modificato non certo senza disagi tutto il sistema di proiezioni stampa, e al punto di averlo reso pressoché invisibile in Europa, uscito nella sola Francia e invece annullato, magari a data di uscita già ufficialmente comunicata, negli altri Paesi. Un’esperienza traumatica, quella del naufragio del Donovan, dopo la quale Xavier Dolan aveva bisogno di resettare tutto, aveva bisogno di ripartire da capo, aveva bisogno di ricominciare da se stesso e dal mettersi personalmente in scena anche come attore, aveva bisogno di ripartire dal suo Canada che parla (più o meno) francese e dalla costante scoperta della sua (omo)sessualità, aveva bisogno di ripartire dalle sue sospensioni estetiche ed estatiche figlie degli anni Novanta, dai suoi piccoli focolai di tensione sempre sul punto di implodere in litigi e lacrime, dalla sua voglia (di fare cinema, o forse più semplicemente un altro segno della sua sfortuna familiare e di una vita che lo sta per portare alla ricerca di fortuna in Australia) che appare sul volto del Maxime che interpreta, e da un film piccolo e sincero, intimo e semplicissimo, che dalle alte ambizioni internazionali e dalle stratificazioni di un autore in crescita compie il passo indietro – fino a farlo troppo indietro – di chi semplicemente vuole tornare a quel flusso emotivo che ha sempre reso una sorta di travolgente continuo la sua filmografia.
Nasce da questo Matthias et Maxim, dal bisogno di Xavier Dolan di ritornare alle sue più tipiche madri tossiche e litigiose, dal bisogno di ritornare alle sue deflagrazioni lirico-musicali e ai cambi di formato con cui stringere i protagonisti nella sequenza più viscerale, dal bisogno di ritornare alla tenerezza dei suoi sentimenti come amori immaginati e poi scoperti all’improvviso, così disperati, così totalizzanti, così impossibili, così esplosivi nella caduta delle maschere sociali che portano in dote. Come in una sorta di nuovo J’ai tué ma mère che vorrebbe – ma in fin dei conti non ci riesce – essere più maturo, più posato e più rigoroso nel suo 35mm (con tanto di inserti filmati in 70 e poi “sgonfiati” per la proiezione in pellicola cannense) privo o quasi di svolazzi per concentrare la sua lirica in pochi ma straordinari istanti, e soprattutto – a differenza del film nel film, «impressionista ed espressionista», che chiedendo ai due protagonisti di baciarsi in favore di super8 a partire dal suo titolo Who am I? scoperchierà il vaso di Pandora della loro latente omosessualità mai scoperta e ora tutta da accettare – privo di qualsiasi pretenziosità. Perché Matthias et Maxime nient’altro è che una storia d’amore, quell’amore tardivo, malinconico e purissimo del quale due amici di una vita, quasi fratelli fra cene in famiglia (l’unica sana, quella del benestante e realizzato Matthias, mentre Maxime sopravvive senza soldi e senza padre nella casa popolare di una madre alcoolizzata) ed esperienze condivise, non si sono mai accorti in 27 anni. È quell’amore da scoprire e ammettere a se stessi prima ancora che all’altro pronto a erompere grazie al mezzo cinema, è quell’amore sconvolgente nell’identità non solo sessuale atteso da tutta la vita senza nemmeno saperlo, è quell’amore che eliminerà del tutto ogni barriera. Ma è anche – ed è qui che, nonostante la sincerità di fondo e i momenti potenti nel rendere in pura poetica come un innocente bacio imposto dalla messinscena possa scatenare la fine di ogni sovrastruttura sociale e l’unica via per abbandonarsi finalmente alle emozioni represse e sopite, sta il problema del nuovo lavoro di Dolan, tornato dopo i premi con Mommy e Juste la fin du monde in concorso a Cannes – un amore ancora troppo adolescenziale, proprio come troppo adolescenziale, con tanto di pollice ossessivamente portato alla bocca e senza reali punti di svolta, sembra essere tornata nel suo passo indietro privo di evoluzioni l’ambizione del cinema del regista classe 1989. Un autore che, a trent’anni ormai compiuti, non dovrebbe e non potrebbe più permettersi di fare ancora il bambino prodigio che a sedici anni scriveva il primo lungometraggio che avrebbe realizzato a venti, e che all’ottavo film realizzato non dovrebbe e non potrebbe più accontentarsi di cercare il perfetto esordio della giovane promessa che non può più essere. Non solo per le tematiche così smaccatamente giovanili e per l’ambiente messo in scena che è già lavorativo eppure ancora post-scolare fra i viaggi al lago in cui scegliere a suon di scommesse il cast del meta-cortometraggio e i bong che girano da un fumatore all’altro, quanto per quell’apparente mancanza di consapevolezza pienamente perdonabile in passato e nella piena gioventù, ma ormai diventata il limite di un autore che non solo potrebbe ma stavolta non ha voluto, ma che ha scientemente deciso di involversi.
Perché, al di là di una regia di nervosismi e leggeri giochi con lo zoom lievemente più “fissa” che in passato e di una scrittura brillante nel cercare le forme espressive più vicine alla poetica del regista evitando di esagerare con le scene madri, non c’è alcuna reale evoluzione in Matthias et Maxime, non c’è un ripartire dal personale per cercare una reale maturazione autoriale che trasformi il personaggio in paradigma umano dal quale battere le direzioni tangenti, e non c’è nemmeno, pur con gli elementi metacinematografici, un reale ragionare teorico sul mezzo che vada oltre al semplice gioco di riferimenti. C’è solo un accontentarsi, forse un po’ furbetto, di ripercorrere pedissequamente sentieri già più volte battuti e quindi sicuri riducendo al minimo i rischi. Come se al racconto di formazione messo in scena fra sessualità e crescita personale, paradossalmente, fosse contrapposto un contro-racconto di regresso autoriale, dove non bastano le intuizioni più o meno sparute di libertà cinematografica e un buon cast per nascondere come se fossero bluff a poker il fiato corto della carenza di ambizioni. Certo, non mancano i momenti bellissimi. A partire dalla nuotata nervosa e disperata di Matthias in crisi dopo quel primo e galeotto bacio cinematografico che gli apre gli occhi facendo per la prima volta vacillare la sua eterosessualità, che la macchina da presa di Dolan segue nuotando con lui fra gli schizzi e i respiri affannosi sopra e sotto il pelo dell’acqua fino a lasciar travolgere l’obiettivo dalle onde e dai flutti del lago, in un effetto soffocante e ipnotico che, nel suo profluvio di acqua, dettagli, ralenti, bolle e sfocature che tornano a fuoco nelle bracciate riporta alla mente probabilmente in maniera istintiva e inconsapevole il New American Cinema e l’arte della visione secondo Brakhage. Fino a quella telefonata finale straziante e rivelatrice di email ricevute ma mai inoltrate nell’imbarazzo dell’evidenza e dell’attesa, prova di un amore già inconsapevolmente sognato a sette anni e solo adesso finalmente pronto a ripresentarsi di fronte alla porta per lo meno per l’ultimo saluto prima della partenza di Maxime per l’Australia e per la sua nuova e auspicabilmente migliore vita. Come pure è straordinariamente potente la sequenza velocizzata della festa in casa, che passando per il litigare fino alle mani e chiedersi scusa non potrà che confluire in quella lampadina crepitante come l’amore e l’accettazione che sta nascendo, e poi nei baci appassionati incorniciati dalle porte e dalle finestre mentre fuori piove, nelle mani nei pantaloni mentre l’immagine solo per un attimo si allarga, o meglio si stringe con le bande verticali, dall’1.88 al 2.35:1 – «Arrêté!», e subito uno che torna dalla sua ragazza, l’altro che vaga per i locali notturni simbolo di quell’eterosessualità improvvisamente rimessa in discussione fino a trovare finalmente la (opposta) certezza, la sincerità, l’identità, la pena d’amore, la nuova attesa dell’ultimo occhio lucido. Ma non è il talento di Xavier Dolan, da sempre cristallino, a essere messo in discussione, e in realtà nemmeno la sua decisione di tornare a prendere come punto di partenza il suo vissuto e la sua intimità in un cinema più piccolo. Quello che pare mancargli in Matthias et Maxime è semmai la volontà di svilupparsi da questo punto di partenza, di maturare, di diventare un autore finalmente adulto, di scrollarsi realmente di dosso la sua totale ed eccessiva centralità come in quel percorso iniziato ai tempi di Lawrence Anyways e ora bruscamente interrotto, per non dire apparentemente annullato e in parte rinnegato. Perché è pienamente legittimo, dopo un insuccesso, tornare al ventre materno e a ciò che meglio si sa fare, ma non ha il minimo senso, anche in un film che è oggettivamente riuscito, emozionante, sincero e lucido nei suoi incastri, farlo senza crescere e scartare ma anzi tornando indietro, a quelle modalità narrative un po’ soffocate e a quelle inesperienze che Xavier Dolan sembrava aver già superato dieci anni e sette lungometraggi fa.
Marco Romagna