MATÉRIAUX DE HONGRIE (2015), di Noëlle Pujol
“I sometimes dream of a film made from a collection of documentary images,
some with their sounds, and others with their lack of sounds,
with no music except occasionally what is in the image,
while preserving the original lenght of the shots cut together”
Jean-Claude Biette, Cinémanuel
Noëlle Pujol mette subito le cose in chiaro con il cartello iniziale: il suo Matériaux de Hongrie, titolo quanto mai eloquente presentato in prima mondiale in concorso al DocLisboa 2015, parte dal sogno di Biette, lo concretizza, lo porta su schermo. Il gioco è semplice, e consta nell’accumulo di immagini in sostanza non montate: o lo si accetta, oppure non ha senso rimanere fino al termine della proiezione. È un film che parte da un critico e da un suo libro, come una sorta di risposta e scambio culturale attraverso un lungo lavoro di footage e di riprese nell’Ungheria del 2003, subito prima dell’ingresso del Paese nell’Unione Europea. E il materiale è in effetti molto e molto vario, capace da solo di creare un efficace affresco di una popolazione più volte martoriata, al contempo unita e divisa, drammaticamente calata nella povertà. Una popolazione che era doveroso riscoprire, dando voce e risalto internazionale a quella memoria storica sopita, imprigionata da troppo tempo in qualche minuscola cineteca e nell’oblio di qualche tomo impolverato.
Il materiale ungherese compone la sinfonia corale e storica di un Paese in difficoltà attraverso la proiezione, apparentemente casuale, di rushes, cinegiornali d’epoca e materiale d’archivio, immagini così come sono, non tagliate né sottotitolate: non serve capire cosa stiano dicendo le persone inquadrate, sono i fotogrammi che parlano in una sorta di comunicazione non verbale ma fortemente emotiva. L’atto stesso di mostrare balza al potere, senza particolari velleità narrative o divulgative, lasciando semplicemente che siano le immagini stesse a farsi largo sullo schermo. Tutto è degno di essere filmato e mostrato, sembra volerci dire la regista francese, ogni persona, ogni momento, ogni fatto. Dagli statici interni di un bar, i bicchieri lavati e pronti ad essere riempiti, ad una piscina pubblica dove anziane signore possono trovare qualche breve istante di ristoro, fino a dettagli di danze circensi, un campo rom vicino a un palazzetto dello sport in disuso ricoperto da ruggine e felci, il difficile sonno di un barbone sotto le statue della piazza principale. E tanta lentezza, come quella della Storia.
È inutile girarci intorno: Matériaux de Hongrie è un film pesante, nel quale è estremamente difficile entrare, nel quale la scelta di non tagliare le immagini disponibili si rivela affascinante, forse necessaria, ma non sempre adeguata. Ci sono lunghi istanti che paiono interminabili, sembrano mancare di una direzione, sembrano dimenticare di avere qualcosa da dire in un montaggio che è in realtà un collage, un fiume, un accumulo di materiale che, nella negazione massima dell’esercizio di stile, pare paradossalmente per lunghi tratti diventare proprio un vuoto esercizio di stile, una sola idea reiterata all’infinito. Ma poi appaiono, come lampi che squarciano il cielo, momenti di quasi inaspettata e atavica umanità, momenti di gioia collettiva, momenti di orgoglio personale e nazionale, momenti nei quali è impossibile distogliere lo sguardo dallo schermo, e il film comincia a volare. Ci sono le imprese del Vasas di Ferenc Puskás, 4-0 all’Ajax e 2-0 al Real Madrid, c’è il francese stentato di un lavoratore che mostra orgoglioso i simboli tradizionali nazionali dopo quarant’anni di stanco servizio nei cantieri navali, c’è la fisicità della macchina da presa scontrata dai passanti, c’è la tenerezza di un padre e di un figlio che parlottano su un prato. C’è un intero atlante sentimentale che, senza che sia possibile capire una sola parola, di dischiude, pronto ad essere colto.
C’è un momento specifico, in effetti, nel quale tutta l’operazione -a tratti troppo oscillatoria nei suoi 143 minuti ma decisamente interessante- acquista concretezza, si immerge nel suo profondo senso politico, crea un efficace parallelo fra ieri e oggi. Il passato ci porta al 1956, con la caduta di quella variante magiara putrescente che qualcuno ha avuto il coraggio di confondere con il Comunismo: la popolazione taglia il centro del tricolore, elimina dalla bandiera ungherese lo stemma con la Stella Rossa, e la bandiera stessa con il buco centrale diventa simbolo di rivolta. Per passare al 2003, una manifestazione di piazza mostrata in un take apparentemente infinito, una fiumana colossale di gente in lotta: la rivolta popolare continua, non è cambiato nulla. L’Ungheria ricomincia a farsi sentire, a combattere per i propri diritti, a vivere. È vero, forse avremmo preferito qualche minuto in meno e un linguaggio cinematografico più definito, avremmo preferito un flusso costante e qualche scelta in più da parte della regista, avremmo preferito un affresco umano e politico meno granuloso e strabico, privo delle lunghe parti a tratti ripetitive, inutili, mancanti di una reale direzione da seguire. Ma, nel multiforme calderone creato dalla Pujol, abbiamo trovato sprazzi di vita di una potenza sublime, abbiamo ritrovato l’orgoglio di una nazione geograficamente così vicina ma culturalmente così lontana da noi, abbiamo trovato sonori e necessari vagiti di libertà. E non è affatto poco.
Marco Romagna