L’«ultimo rodeo» proverbiale di Paul Schrader è il frutto di una corsa alle armi appresa nel timore di una malattia terminale: Master Gardener, fuori concorso alla 79esima edizione della Mostra del cinema di Venezia, costituisce il capitolo conclusivo di una trilogia ‘della maturità’ nella sua filmografia, dopo due opere che avevano troneggiato nel concorso del medesimo festival, nel 2017 First Reformed e nel 2021 The Card Counter. I tre film si specchiano l’uno nell’altro con un’aderenza impressionante e in particolare questi ultimi due hanno analogie tra loro che li rendono pressoché gemelli l’uno dell’altro: il contesto del passato del protagonista che in The Card Counter era costituito dai crimini di guerra nei campi di tortura dell’esercito americano qua diventa l’underground criminale dei neonazisti e del suprematismo bianco; mentre Oscar Isaac diventa Joel Edgerton, un campo di luci stroboscopiche diventa un miracoloso prato che fiorisce a vista d’occhio, il gioco d’azzardo diventa l’orticoltura, e il fil rouge è sempre una ricerca di redenzione nella landa desolata che è la vita terrena. Il formato dell’immagine anno dopo anno si allarga (4:3 -> 1.66:1 -> 2.39:1), e i finali si fanno di interpretazione meno complessa, pian piano più idealistici e meno astratti. Tutti e tre i protagonisti tengono diari (come altri antieroi schraderiani tra cui il ‘light sleeper’ de Lo spacciatore e soprattutto Travis Bickle di Taxi Driver) e affrontano le grandi domande dell’esistenza nel loro piccolo, tormentato psicodramma quotidiano. Nel prologo di Master Gardener, il protagonista Narvel, che ha cambiato identità grazie alla protezione testimoni dopo aver consegnato alle autorità il gruppo di neonazisti che gli aveva commissionato degli omicidi, scrive nei suoi appunti personali che il vero fine dell’occuparsi di un giardino è tracciare una speranza verso il futuro, immaginare che ogni seme darà vita. Appare come un desiderio etereo dello stesso Schrader, che al solito usa una regia asciutta, americana nella prassi ma minimale come Bresson, per suggerire un’idea di trascendenza, di realtà invisibile che si mischia con la realtà. E se nei due film precedenti la cupezza della riflessione sulla condizione umana era messa in contrapposizione a un sottotesto romantico (in The Card Counter anche sdolcinato), qua vige un umanismo sfacciato, eccessivo, idealistico nella sua dolcezza.
Sì, «è sempre lo stesso film», e stavolta anche più del solito. Schrader di certo non è noto per la sua sottigliezza; semmai la reiterazione sembra una delle sue caratteristiche portanti, che sia uno stesso tema riproposto in epoche diverse (anni fa avevamo discusso la diversa narrativa metacinematografica in Hardcore / Auto Focus / The Canyons), uno stesso personaggio riproposto in due vite diverse (American Gigolò / The Walker) o il finale di Pickpocket rivisto con diverse inquadrature e contesti (Patty Hearst / Lo spacciatore / The Walker / The Card Counter). Ma, nel ripercorrere sempre lo stesso sentiero di un cinema di colpa e solitudine, più come regista che come sceneggiatore Schrader con questa trilogia ambisce ad autori come Ozu, Rohmer, Bergman: autori che rintracciano nelle stesse strutture narrative, nell’andare “in pilota automatico” come molti dicono con senso anche negativo, la possibilità di abbracciare il medesimo tema con diversi punti di vista – creando un universo sempre eguale a sé e sempre coerente, ma anche dando la possibilità di una comprensione del singolo film nel relativo. Alla fine, Master Gardener sarebbe più ‘unico’ se non esistesse The Card Counter, ma il confronto col predecessore ne evidenzia forze e differenze. Avrebbe perfettamente senso se fosse davvero, come dicono (anche se non ce lo auguriamo), un film testamentario e finale per Schrader, perché è la conferma di quello che i due film precedenti suggerivano – dal movimento di macchina in avanti verso la chiesa all’inizio di First Reformed al movimento di macchina all’indietro su cui si chiude Master Gardener, è come se un ulteriore percorso di redenzione (unico e continuativo e comune a tutti e tre) si fosse diramato nell’archetipico protagonista schraderiano, il tenebroso poeta violento che non accetta di non essere punito; e stavolta, forse, questa redenzione la trova davvero. Ed è assurdo, invero, perché il protagonista è un ex-nazista. Forse più che nella maggior parte dei suoi film, la provocazione verso il pubblico è lampante dai primi minuti: come potremo empatizzare con lui, credergli, accettarlo? A volte, difatti, è difficile, e Narvel è un protagonista meno caratterizzato dei precedenti, più sospeso nel limbo, a volte senza una personalità propria, al di fuori del suo bisogno di redenzione. Se in First Reformed l’atteso climax era l’esplosione di una bomba che non arriva e in The Card Counter un confronto violento tra due personaggi che arrivava fuori campo, la delusione delle aspettative dello spettatore, qua, è più sottile: a non arrivare è semplicemente il concorso per il miglior giardino molto accennato all’inizio, mentre la sorpresa è che ad arrivare sia proprio la redenzione. Non macchiandosi (…quasi?) mai di vere colpe dal suo cambio di vita, e anzi proteggendo qualcuno che in passato avrebbe odiato senza motivo, Narvel raggiunge non solo la redenzione ma addirittura l’amore, e l’amore più vero che ci possa essere – perché il suo con Maya («mixed-race», come dice Sigourney Weaver all’inizio, che nella notte scorge i tatuaggi di svastiche sulle spalle del protagonista) è un sentimento irrazionale, pregno di una certa feticistica ambiguità tra amore paterno e amore romantico che su carta si direbbe che non sta né in cielo né in terra. Però lui è lì, nella sua prigione floreale, a fare una vita matrimoniale che vogliamo credere che lui si meriti e che lei desideri genuinamente.
Se non si conoscono i due film precedenti, invece, Master Gardener può apparire così: un film intimo che flirta con la tensione del thriller senza mai davvero arrivarci, usa una colonna sonora ambient ipnotica per rapire e confondere lo spettatore di fronte all’evidente conflitto etico messo in scena, ma che alla fin fine è pressoché solo un dramma intimo che si confronta con la società americana odierna, coi pregiudizi e col perdono, con la comunicazione e la violenza. È un prodotto di un cinema classico, qualcuno direbbe “vecchio”, che però osserva il presente, e al solito osserva dentro l’uomo, nel suo spirito, e nel confronto irrimediabile con l’altro, col diverso, col futuro. Schrader, nel dire che potrebbe trovare plausibile o auspicabile il riscatto esistenziale di un ex-neo-nazi, fa una dichiarazione d’intenti sentimentale e ottimista, che è un colpo di scena nella sua intera opera. Sa di finto (e infatti lo è), ma è soddisfacente vedere il rimorso, il razzismo e la depressione svanire, sostituiti da un’immagine affettuosa che si augura un futuro pacifico. È davvero come un giardino che fiorisce, un’attività zen che rischiara l’animo umano e lo porta a curare la linfa vitale di un altro essere umano con lo stesso amore che metterebbe nelle piante. È il meglio che possiamo sperare per il ‘master gardener’, il grande artista che odia se stesso e vuole dar vita a ciò che vede tutti i giorni, o perlomeno ci prova con tutte le sue forze, di petto contro il mondo e contro se stesso.
Nicola Settis