Il cinema e la vita, il cinema è la vita. Tanto che viene quasi naturale partire ribaltando lo schermo e rivivendo la realtà della proiezione, centottanta gradi con cui abbandonare per un attimo le immagini e tornare alla carne, alle lacrime e alle catarsi di chi le guarda. È venerdì 16 luglio 2021, e la prima ufficiale sulla Croisette di Marx può aspettare è appena finita fra i lunghi applausi scroscianti e gli occhi unanimemente lucidi di tutti i presenti. Nel riaccendersi delle luci, mentre sullo schermo della Salle Debussy ancora scorrono i titoli di coda, perfino Marco Bellocchio con in mano il microfono con cui ringraziare gli spettatori per il calore tradisce nella voce una commozione forse inedita, mai provata in tanti anni di carriera. Accanto a lui, immancabile, il figlio Pier Giorgio, che senza mai smettere di filmarlo si ritrova naturalmente ad abbracciare la sorellastra Elena mentre, più di chiunque altro, non riesce a smettere di singhiozzare. Ma non era Elena la sola a piangere. Tutti stavano – stavamo – piangendo, in quella sala. Nessuno escluso. Piangevano tutti i Bellocchio, toccati in prima persona, ma anche i critici di ogni Paese, i distributori internazionali, ogni singolo spettatore immancabilmente entrato, nel corso del film, a far parte della famiglia. Perfino il cielo si è messo a piangere, con l’unico breve ma intenso acquazzone dell’intera edizione festivaliera pronto ad aspettare l’uscita dalla Debussy per riversarsi sulla Costa Azzurra. Non esiste unità di misura che possa calcolare la sincerità e i sentimenti, eppure non potevano che essere quelle lacrime straziate, quella voce rotta sotto gli occhi gonfi e ancor più l’incommensurabile delicatezza dell’abbraccio fraterno l’unica possibile coda del del film, il definitivo deflagrare della sua dolorosissima potenza e della sua flagrante onestà, il suo struggente farsi sentire e il suo rimanere come miracolosamente sospeso nell’aria anche dopo essere finito. Un momento di abbacinante purezza, senza prezzo, la cui semplicità racchiude tutta la poesia cinematografica della vita e tutto il senso più profondo di una famiglia, trasformando chi c’era da semplice spettatore a vero e proprio testimone.
Sullo schermo, invece, basta un sapiente stacco di montaggio. Dal primo piano di Francesco, figlio dello scomparso Tonino che lancia un brindisi a ricordare chi non c’è più, al totale della tavolata che riunisce i fratelli Bellocchio, (im)percettibilmente irrigiditi nel ricordo del depresso e suicida Camillo ancora presentato come quell’angelo eternamente allegro e positivo che semplicemente, nel suo sempiterno velo di malinconia, non era mai stato. Un istante di gelo, ben dissimulato dai presenti messi inavvertitamente di fronte al loro senso di colpa condiviso eppure evidente nel fondo dei loro sguardi, come un brivido che dopo più di mezzo secolo scende per un attimo lungo le spine dorsali dei superstiti Marco, Piergiorgio, Alberto, Letizia e Maria Luisa. Ma questa volta, ormai superati gli ottant’anni tempo di bilanci, non può più vincere la menzogna, non può più vincere il cinismo di una famiglia in cui ognuno ha sempre pensato a se stesso, non si può più continuare a fingere e a non ricordare. Non ricordare cosa ci fosse scritto nel biglietto d’addio, per esempio. Un biglietto distrutto per evitare che potesse diventare arma politica contro il fratello Piergiorgio e ormai pressoché dimenticato. Oppure non ricordare nemmeno l’esistenza, e ancor meno se si fosse risposto, a una lettera antecedente in cui Camillo chiedeva al giovane Marco se ci fosse un qualche posto per lui nel cinema, magari confessando questa mancanza di empatia ai figli Pier Giorgio ed Elena che al contrario nel corso degli anni il regista di Bobbio ha realmente trasformato in attori. O ancora rendersi conto che nessuno in famiglia, una volta informato della morte di Camillo, avesse pensato alla possibilità che si fosse suicidato, immaginandolo piuttosto colpevole in qualche incidente d’auto. Incapaci al tempo di calarsi nella tragedia, incapaci di soffrire quanto avrebbero voluto e dovuto, incapaci per ore di cambiare umore, e poi incapaci per tanti anni di metabolizzare fino in fondo il lutto, trovando nella necessità di proteggere la madre dalla sua stessa religiosità medievale, convincendola di come non fosse stato un suicidio ma un incidente, la perfetta scusa per non sentirsi in colpa, per minimizzare l’accaduto, per lasciare che Camillo diventasse «l’angelo» ancora ricordato nei brindisi.
Si muove su più piani, Marx può aspettare. Da un lato quello degli sfumati e a volte contraddittori ricordi di famiglia, con le interviste ai parenti e con lo stesso Bellocchio che racconta i suoi «non mi ricordo» ai figli. Dall’altro quello delle vecchie foto e dei filmini in super8, che allo stesso modo restituiscono la loro verità parziale. Dall’altro ancora quello del suo cinema di finzione di cui definitivamente disvelare i riferimenti più personali, con le tematiche famiglia-religione-suicidio da sempre tanto profondamente autobiografiche che persino il prete di paese ha sempre considerato i suoi film alla stregua di confessioni, e il sempre ostentato ateismo del regista una personalissima, abissale e disperata professione di Fede, con l’apice del suo Calvario proprio nella bestemmia de L’ora di religione. C’è la storia del Novecento italiano, che si rispecchia e riemerge da quella della famiglia Bellocchio. C’è la guerra – semplicemente straordinaria la foto di Marco e Camillo bambini perplessi che diventa controcampo del celebre annuncio di Mussolini –, e ci sono gli anni Quaranta, Cinquanta e Sessanta fra le scuole, il boom e il cambio radicale di morale. Ci sono gli egoismi e le diaspore familiari, c’è la morte del padre e c’è la partecipazione (o meno) politica sessantottina. C’è Bobbio, il paesino, c’è Piacenza, la piccola città di provincia, e c’è la grande Roma in cui fare (o non fare) cinema. C’è la cultura progressista – quando non apertamente anticlericale – contrapposta alla religiosità più bigotta e oscurantista retaggio della generazione precedente, ci sono le donne fra lo stare un passo indietro e il matriarcato, e poi ci sono i figli, le generazioni che procedono, le diverse personalità, le differenti spiritualità, una verità da far emergere fra testimonianze, ricordi, incoerenze, lettere, attrezzi da palestra e dolori mai davvero elaborati.
Del resto Marx può aspettare, sincero e straziante film-summa di quello che con l’ennesimo capolavoro si conferma per distacco il più grande autore italiano vivente, non è certo la prima volta in cui Camillo entra prepotentemente nell’immaginario dell’autore piacentino. È di certo la più esplicita, è probabilmente quella definitiva, ed è forse l’unico reale tentativo di comprendere fino in fondo l’accaduto per poter finalmente razionalizzare e superare i sensi di colpa. Ma il cinema di Marco Bellocchio, premiato a Cannes 2021 con la Palma d’Onore alla carriera, è sempre stato legato a doppio filo a quel fratello eterozigote che mai superò i ventinove anni, come uno spettro «nato nero» e sempre meno brillante e fortunato che mai ha messo di aleggiare fra i suoi pensieri e i suoi schermi, come un doppio mai dichiarato, come una parte (in)confessabile di se stesso. Di certo ne Gli occhi, la bocca, che di fatto nella sua trama era già stato la confessione a cuore aperto sulla necessità di minimizzare e arrivare a negare il suicidio del gemello di fronte a una madre bigotta e violentemente ossessionata dalle fiamme dell’inferno; chiaramente nei tormenti, le grida d’inquietudine e il tragico finale di Salto nel vuoto, e senza dubbio nell’ipocrisia che alberga in ogni anfratto familiare de L’ora di religione. Ma a ben vedere già da molto prima, già ne I pugni in tasca con cui il regista aveva esordito tre anni prima del tragico evento, era in sostanza Camillo, il figlio non visto dalla madre cieca. E non è certo un caso, in tal senso, che la ‘vera’ madre degli otto fratelli Bellocchio nella prima foto che la introduce in Marx può aspettare sia ritratta con gli occhi chiusi, incapace di vedere oltre il netto confine fra salvezza e dannazione. Camillo era lì, in mezzo, ‘ragazzaccio’ edonista con poca voglia di studiare e tanta di (provare a) divertirsi, né di successo come il cineasta Marco, l’intellettuale Piergiorgio fondatore dei Quaderni piacentini o il dirigente nazionale CGIL Alberto, né vistosamente bisognoso di cure e attenzioni come ‘il pazzo’ Paolo, con il quale Camillo dormì diversi anni nella stessa stanza senza che nessuno si preoccupasse per lui, o la sordomuta Letizia. Viveva il suo disagio nell’indifferenza, non guardato al punto che nessuno in famiglia aveva minimamente intuito quanto fosse profondo quel malessere che lo portò a togliersi la vita. Era stato ritenuto preferibile, nel marasma del Sessantotto di quello che rimase il loro ultimo incontro, dirgli «Quattro cazzate rivoluzionarie» sperando che dimenticasse il suo dolore per un obiettivo sociale più grande, ricevendo in riposta quel tagliente «Marx può aspettare» sempre rimasto come un tarlo nella testa del regista tanto da rimetterlo in bocca al personaggio di Lou Castel ne Gli occhi, la bocca. Ma se nel 1982 l’interlocutore Michel Piccoli gli ribatteva pragmaticamente «Parli del suicidio di Pippo come se fosse dipeso da te. Ma chi sei tu, Dio?», ora è tempo per Marco Bellocchio di abbandonarsi al cuore e mettersi forse per la prima volta apertamente dalla parte del torto, di ritornare con rara e inestimabile potenza emotiva alla sua vita, alla sua famiglia e al suo cinema chiedendo apertamente ai figli Pier Giorgio ed Elena di giudicarlo. Consapevole che probabilmente non potrà esistere assoluzione per avere così a lungo minimizzato, ma anche che solo il (grande) cinema può riaggiustare la Storia, può restituire quell’empatia di famiglia troppo a lungo negata, può far camminare libero Aldo Moro nel finale di Buongiorno, notte proprio come può far finalmente rincontrare i due gemelli sul ponte di Bobbio. L’unica possibile salvezza, l’unica possibile catarsi, l’unica possibile redenzione. Marco che passeggia nella nebbia mattutina e il sempre giovane Camillo, ormai parente di tutti, che si allena correndo con la sua vecchia tuta dell’ISEF. Un passo dopo l’altro verso il domani.
Marco Romagna