Il cinema di animazione è sempre stato troppo sottovalutato. Sono poche le persone (dagli addetti ai lavori sino alla critica, per poi avere una ricaduta ovviamente sul pubblico generalista) che nutrono ancora oggi un certo disinteresse, un distaccamento prevenuto nei confronti di questa materia. Eppure, più passano gli anni, più risulta evidente quanto questa forma di narrazione sia tra le più libere e avanguardiste della settima arte. C’è poco da fare: i film animati anticipano i tempi perché sono in grado di abitare e vestire il contemporaneo come invece, fisiologicamente, il cinema dal vero non potrà mai fare. L’animazione è libera. Libera di creare mondi, universi, racconti letteralmente incredibili a cui però il pubblico non rivendicherà mai lo spettro della verosimiglianza; così come libera di poter dar vita a immagini quintessenziali, che rispettino il preciso volere del regista di turno, il quale non dovrà (quasi) mai sottostare a ostacoli o limitazioni di natura tecnica e/o logistica. Studiare l’animazione, quindi, significa fare i conti con il qui e ora cinematografico più puro, più genuino e privo di filtri. Significa fare i conti con lo specchio più limpido in grado di riflettere lo stato dell’arte in cui ci troviamo. Mars Express non fa eccezione. Anzi, forse più ancora di altri titoli punta i fari sullo straordinario stato di salute dell’industria d’animazione transalpina, sulla sua solidità produttiva, sui suoi elevatissimi standard tecnici, sulla sua capacità di rischiare. Presentato al 76mo Festival di Cannes (inspiegabilmente relegato nella sezione Cinéma de la Plage), il film di esordio di Jérémie Périn incarna perfettamente la camaleontica, cangiante e stratificata produzione audiovisiva degli anni, anzi, dei giorni a noi più vicini. È un cartone animato? Un noir? Un film di fantascienza? Un (melo)dramma umanista? L’identità, non a caso, è uno dei temi principali del progetto. Senza raccontare nulla della trama (poiché è meraviglioso lasciarsi cullare dal fluire del racconto, perdersi nel labirinto narrativo e di immagini superficiali che lo popolano) è evidente quanto la forma adottata da Périn sia stata ricercata proprio per espletare il mare magnum in cui naufragano i protagonisti: androidi, umani, viaggi intergalattici, colonie planetarie… lo scopo è fare ordine, dare una dimensione, un confine, un disegno (letteralmente) a un caos che prima di essere universale e diramato su più dimensioni, è personale, intimissimo, doloroso.
Da qui, allora, ecco che la regia si dimostra onnivora e non ha paura di scomodare i grandi classici del genere come Chinatown (1974), di Roman Polanski, o Il lungo addio (1973) di Robert Altman, così come cult più recenti e, se vogliamo, simili quali Akira (1988), Matrix (1999), o Blade Runner 2049 (2017). Tuttavia, la vera forza di Mars Express è quella di riuscire a dialogare anche con altri mondi al di là di quello cinematografico. Il film si sviluppa infatti come un videogioco. Il pubblico viene catapultato in un universo sconosciuto che poco alla volta deve imparare a conoscere, ad abitare. Périn non ci introduce al contesto, ci catapulta al suo interno lasciando poi al nostro sguardo il compito di prendervi confidenza. Prima di tutto dobbiamo comprenderne le leggi, i confini, le dimensioni. Poi via via saremo interrogati e provocati su questioni più personali e spinose fino a un epilogo che richiama in maniera evidente quello del celebre Detroit: Become Human, acclamato videogame di successo sviluppato da Quantic Dream e pubblicato da Sony Interactive Entertainment nel 2018. Anche in quel caso (guarda un po’…) si facevano i conti con la fantascienza, gli androidi, le identità e, di conseguenza, le scelte morali da compiere a seconda delle proprie sensibilità. È un film stratificato Mars Express, ricco di input, link, spunti, riferimenti. Di alcool, di droghe, di puttane (sintetiche), di ologrammi di sorveglianza, di sangue rosso oppure blu, ma anche di inaspettate gag, di doppiezze, di ribaltamenti, di violenze domestiche, di corse contro il tempo, di lacrimati addii. Dalle leggi della robotica alla vita dopo la morte, dall’amore per una figlia al tradimento di un’amicizia, da un codice d’aggiornamento a un bruciante senso di (psichedelica) malinconia. È una grande bacheca social piena di post suggeriti da un algoritmo tanto creativo quanto precisissimo nel ricreare un immaginario contemporaneo basato sulla foga dell’accumulo, mirato a costruire un sostrato formale che (mai) nasconde, annega, sovrasta l’essenza più intima e umana di qualsiasi personaggio (o spettatore) che vi si relazioni. Il cinema di domani, passa da qui. Da un treno che, proprio come quello del 1895, sfidava lo sguardo del pubblico per proiettarlo al futuro. All’epoca si andava a La Ciotat. Oggi si viaggia verso Marte. Le mete sono leggermente diverse, ma l’esito è lo stesso. Come immutato è il senso di meraviglia.
Simone Soranna