Il volto segnato dalla fatica del vivere, dai mille travagli ed espedienti messi in essere per la mera sopravvivenza, l’incedere lento e ciondolante, il passo strascicato, buste di plastica nelle mani piene dei pochi generi di conforto che tutto questo riesce a procurare: Ma’Rosa entra prepotentemente nel film del filippino Brillante Mendoza che porta il suo nome, conquista la scena senza bisogno di orpelli cinematografici mirati a sottolinearne la centralità, seguita da una traballante camera a mano che, insieme a lei, getta noi spettatori tra i fatiscenti slums della periferia di una metropoli del Sud Est asiatico, è Manila ma potrebbe essere tante altre. Ma’Rosa, nel retro della botteguccia che gestisce insieme al marito, spaccia cristalli di metanfetamina, droga di bassa qualità e a poco prezzo, senza pensare (all’apparenza) alla portata del gesto, all’illegalità, ciò che conta è sfamare i propri tre figli. Non è con clienti “normali”, però, che si entra in contatto, e proprio uno di questi, insoddisfatto del trattamento, denuncia i coniugi alla polizia, dando il via ad una spaventosa spirale di violenza e corruzione; che è quotidiana e usuale, ma il permesso di entrare “a guardare” ci è dato dalla presenza di ma’Rosa.
E’ bravissimo Mendoza ad attaccarsi alla porzione di “reale” che decide di raccontare, a farci dimenticare l’apparato finzionale (che lo soccorrerà, come vedremo, nei momenti chiave), a imbastire una narrazione piena di parole, rumori di fondo, fumo e olezzi di cibo da strada, coinvolgendo nella percezione altri sensi che non siano la mera visione. Un quadro a fosche tinte dalle maglie larghe, talmente larghe da far scivolare per tutta la parte centrale dell’opera la corpulenta Rosa nelle retrovie, confinata in un angusto stanzino della Centrale ad aspettare che i corrotti funzionari dell’ordine (e del disordine) pubblico imbastiscano la loro trama tesa al recupero di denaro più che al riconoscimento della giustizia. E qui il regista commette, a nostro parere, un grande errore: indovinare un personaggio, farlo interpretare dalla giusta attrice (la veterana Jaclyn Jose, praticamente sconosciuta alle nostre latitudini), e dimenticarlo per metà del minutaggio è quasi inspiegabile, se non con problematicità nello script o ambizioni che non elevano ma decentrano perniciosamente la materia narrata. Il programmatico e composito quadro messo insieme dal regista, dunque, mette da parte il pedinamento “dardenniano” per lo spaccato sociale “guerrilla style”, finendo per perdere il primo senza che il secondo sopperisca alla (quasi) fatale perdita d’interesse.
I momenti migliori, lo ripetiamo ancora una volta, sono tutti per la protagonista. In un film proiettato all’esterno, gli unici ripiegamenti impressionisti vengono affidati ai primi piani della Jose sballottata per la città in un cellulare, e sono anche gli unici momenti in cui fa capolino un commento musicale. Momenti di sospensione, veri e propri tocchi autoriali, che hanno fatto sì (ne siamo sicuri) che la Palma d’Oro come miglior attrice all’ultimo Festival di Cannes andasse proprio all’attrice filippina. Una giuria di professionisti e grandi star si sarà sentita toccata e commossa da questi squarci (ecco il grande paradosso che si ripropone continuamente nella storia della Settima Arte) di umanità, che balzano prepotentemente fuori dallo schermo proprio perché l’istanza cinematografica si fa palese, mettendo in campo i suoi collaudati artifizi. Nella ricerca finale del denaro che serve a riscattare la famiglia da parte dei tre figli, ognuno dei quali mette in gioco se stesso, le proprie abilità e le proprie conoscenze, sono contenuti gli sprazzi di buon cinema che concorrono ad arrivare allo splendido finale: l’avanzata dei tre verso la macchina da presa, mentre alle loro spalle un’alba luminosa chiude il sipario su una notte da incubo, è un’immagine che ci porteremo dietro. Non c’è bisogno che un film, per meritare la visione e creare dibattito, sia completamente riuscito, a volte un pugno di buone sequenze sono più che sufficienti (ed ecco spiegato il semaforo verde per un film “problematico”, e il perché lo abbiamo spiegato nelle righe precedenti).
Arriviamo, quindi, al finale, che porta a compimento l’opera e il percorso formativo della sua protagonista. Ma’Rosa, libera finalmente dalla detenzione forzata, osserva la strada, nel suo campo visivo arriva una famigliola, piccoli gesti armoniosi di serenità perlomeno apparente, e viene investita dalla consapevolezza dell’anormalità del suo vissuto, che aveva cercato di rendere il più sopportabile possibile. Una lacrima riga il suo volto, il mondo intorno a lei una volta di più diventa sfocato, l’impossibilità di uscire da un altro tipo di detenzione, quella della sua condizione sociale, è un macigno impossibile da scaricare. In Concorso all’ultimo Festival di Cannes e vincitore, come abbiamo già detto, della Palma per la migliore interpretazione femminile, Ma’Rosa viene riproposto in questi giorni all’interno del Torino Film Festival nella sezione Festa Mobile, prodromo probabilmente, e glielo auguriamo, alla futura uscita nelle sale italiane. Per chi vuole ammirare un cinema imperfetto ma impregnato di umori e odori forti, dargli una possibilità è semplicemente d’obbligo.
Donato D’Elia