MARLINA. OMICIDA IN QUATTRO ATTI (2017), di Mouly Surya
Prima di tutto ci sono le distese desertiche che paiono infinite, i campi lunghissimi di colori caldi e di figure quasi impercettibili nella polvere, le musiche di chiara ispirazione morriconiana che riempiono di strabordante epicità ogni singolo movimento di macchina. Sono le atmosfere degli spaghetti western filtrate dallo sguardo verso Est di Quentin Tarantino, e che ora, proprio dall’Est dell’Indonesia, ritornano a inondare di luce lo schermo cannense della Quinzaine des Réalisateurs con l’opera terza di Mouly Surya, cineasta di messa in scena e di rielaborazioni sul genere, già apprezzata ai tempi dell’esordio Fiction dal pubblico e dalla critica del Far East di Udine. Il suo Marlina the Murderer in four acts è un western atipico, quasi post-apocalittico, per lunghi tratti sbrindellato, innestato in una rilettura cinefila del revenge movie fatto di immagini sature e seducenti, di suggestioni (non solo estetiche) che affascinano anche se non sempre trovano la propria compiutezza, di simbologie che si affastellano in maniera forse a tratti caotica ma sempre pungente fra uomini decapitati e gravidanze apparentemente infinite. E nemmeno dimentica, la Surya, di lasciar soffiare un condivisibile afflato sociale, che accarezza gli affollati autobus/carri bestiame di provincia sui quali si confrontano generazioni di donne più o meno disilluse, mentre la protagonista procede nella ricerca vana e affannosa di una giustizia che la società non è in grado di garantire ai suoi cittadini. Quello messo in scena è un mondo dominato dalla violenza, dall’arroganza, dall’indifferenza. È un mondo opprimente e oppressivo, un mondo di delitti senza castigo, ai quali non possono che seguire altri delitti in una catena che ben presto diventa fantasmatica, soprannaturale, assurda, ambigua. “La vendetta è un piatto che va servito freddo”, si suol dire, eppure la vendetta di Marlina è al contrario proprio un piatto caldo, un riso per i suoi aguzzini, e poi una decapitazione che poi è evirazione. Ma andiamo per ordine.
La rapina, Il viaggio, La confessione e Il parto. Sono già i titoli dei quattro capitoli a indicare i temi della narrazione, a dichiarare apertamente e per iscritto quali siano le sottotracce sulle quali lavora questa volta la Surya. Marlina è una giovane vedova, che ancora tiene l’amato marito imbalsamato nel salotto e che in fondo al cuore ne aspetta ancora quotidianamente il ritorno. Un giorno, dal nulla, riceverà la visita del bandito Markus e della sua ghenga di scagnozzi, che la derubano del bestiame e si mettono in fila per stuprarla uno per volta. Marlina saprà però avvelenare il cibo per sterminarne la maggior parte e, con un machete che cita apertamente la spada samurai disegnata per la vendetta di O-Ren Ishii nella parte messa in scena in abiti anime dal Tarantino di Kill Bill volume 1, decapiterà Markus in una fontana di sangue proprio durante l’atto sessuale. Marlina vuole però che la sua vendetta venga riconosciuta come atto di giustizia, e presa la testa del bandito inizierà un viaggio verso autorità che la considereranno alla stregua di un serial killer, perseguitata nel frattempo dai due sopravvissuti della combriccola di delinquenti e dal fantasma senza testa di Markus che costantemente strimpella sul mandolino. Ad accompagnarla nel suo viaggio di andata e ritorno, fino alla ribaltante resa dei conti finale, una donna al decimo (sì, decimo) mese di gravidanza, il suo marito geloso e ormai frustrato da un periodo troppo lungo di astinenza sessuale e una società indonesiana progressivamente sempre più grottesca e spietata, nella quale a metà della confessione anche Marlina non potrà che cambiare obiettivo, modificare il tiro, apertamente mentire, o per lo meno plasmare la realtà a proprio vantaggio. Una società nella quale, forse, non possono che nascere piccoli e grandi mostri, non possono che tornare incubi, non si può mai smettere di lottare contro persecuzioni alle quali è impossibile sfuggire, dalla repressione sessuale al brigantaggio, dalla gravidanza ai sensi di colpa. Fino al definitivo ribaltamento dei ruoli, da vittima a omicida, o più probabilmente no, perché è sempre Marlina, semplicemente donna, l’eroina del quotidiano che cerca di essere se stessa, il soggetto al centro della scena. Marlina the Murderer in four acts è un film di ricerca di autodeterminazione, di centralità delle donne in una società che tende piuttosto a relegarle ai margini, di ossessioni femminili e di ventilati afflati femministi, che racchiude in una vendicatrice bella e necessariamente spietata tutte le ragioni di un’Indonesia che non ne può più. Ma nemmeno questo è il punto.
Perché il vero cuore focale che emerge dai quattro atti in cui si snoda la vicenda di Marlina the Murderer in four acts, ciò che rende interessante forse anche al di là della sua effettiva riuscita il nuovo film della cineasta di Jakarta e che più in generale ciò che muove la macchina del suo cinema, è l’incisiva riflessione sulle potenzialità del mezzo e del genere, sul magnetismo insito nella stessa natura della fabbrica dei sogni, sulle infinite opzioni di ricontestualizzazione date da un citazionismo che è tutto fuorché fine a se stesso, sulla potenza evocativa e visionaria delle immagini – soprattutto quando già presenti nell’immaginario dello spettatore – che va ben al di là di una struttura narrativa che può rimanere esile, scarna, e forse anche (ma questo non crediamo che lo sia volutamente) zoppicante. Quello di Mouly Surya, pur con i suoi alti e bassi fra assoluti colpi di genio che portano a scene già indimenticabili (la decapitazione, il mandolino in fiamme, il cammino del fantasma, il finale) e troppi momenti di stasi forse troppo marcata, è un cinema che si interroga compiutamente sulla forma, cosa ben diversa dal cinema di pura forma e vana estetica contro il quale più volte – non in ultimo parlando di Sofia Coppola – ci siamo scagliati. È un cinema, anzi, che scientificamente cerca, e spesso trova, la propria sostanza proprio nella sua forma, nella capacità di giocare con le inquadrature e con i movimenti, nella saturazione e nel calore dei colori, nel crepitare nel fuoco dei gialli e dei rossi, degli arancio e dei marroni. E anche quando, come nel caso di Marlina the Murderer in our acts, manca qualcosa a livello narrativo (non sono poche le ripetizioni di uno schema di lenti inseguimenti e di incubali apparizioni, così come non tutti i potenziali simbolismi messi sul piatto dalla Surya trovano una vera e propria metafora su cui innestarsi), il cinema della regista indonesiana è un piccolo manuale, estetico e concettuale, di messa in scena, che sarebbe profondamente sbagliato ben più che ingeneroso liquidare come un semplice film di genere che sembra più lungo della sua effettiva durata. Perché quello di Mouly Surya è un talento forse ancora acerbo eppure chiaro e cristallino, che sa fare (meta)cinema acuto con poco o nulla e che sa lavorare di suggestioni interrogandosi in continuazione sul mezzo del quale sta facendo uso. È un talento del quale vale la pena aspettare la definitiva maturazione, convinti che da un bruco così promettente non possa che venire fuori una farfalla sgargiante.
Marco Romagna