MARJORIE PRIME (2017), di Michael Almereyda
“Dimmi qualcosa di più su di me”. Ma la memoria è labile, ingannata, inattendibile: a lungo andare non ci si ricorda più l’evento originale, ma ci si ricorda dell’ultima volta che lo è ricordato, mentre inevitabilmente la matrice sbiadisce, si logora, si fa evanescente come un fantasma. Come del resto è un film di fantasmi, seppure a suo modo, Marjorie Prime, ultima fatica di Michael Almereyda che trova, dopo il Sundance e Rotterdam, la prima italiana in apertura del Trieste Science+Fiction Festival 2017. Nel futuro vicinissimo eppure in un certo senso sospeso, come atemporale, messo in scena da Almereyda con elegante impianto teatrale in un paio di appartamenti, i Prime del titolo sono sostanziali fantasmi digitali, proiezioni olografiche create da un computer, software dotati delle fattezze umane di chi si vuole progettati per assorbire informazioni attraverso la conversazione. Copie perfette, magari, ma pur sempre copie. Si interagisce, con i Prime, li si forma, e nel frattempo si elabora il lutto, si gode dell’apparente presenza fisica di chi non c’è più, si portano a termine tutti quei discorsi rimasti inaffrontati che tutti abbiamo fra i rimpianti più grandi di una vita. O, per lo meno, ci si illude di farlo, perché il Prime si forma sulla memoria, e quindi su frammenti impossibili da completare, sulle licenze poetiche che modificano la realtà, sull’inaffidabilità di ciò che vogliamo ricordare. Il Prime di Marjorie, 84 anni e una memoria sempre più evanescente tanto da non rendersi conto al mattino di essere caduta la notte, ha le fattezze del suo amato marito Walter, colto nel fiore degli anni e adesso per sempre quarantenne. La stimola, le ricorda di mangiare, e insieme conversano amabilmente su quella volta in cui si sono conosciuti al cinema, sul talento come violinista della donna, e su come l’artrosi le abbia impedito di continuare a suonare il suo strumento. Ma è con il marito della figlia di lei, Jon, che Walter apprende fino in fondo, con tutta la sua intelligenza artificiale, “chi” fosse.
È un regista notoriamente incostante, lo statunitense Michael Almereyda, capace di alternare in passato una sfarzosa prima parte di carriera da Twister a Nadja fino allo Shakespeare postmoderno di Hamlet 2000 per poi vedere la sua verve scemare progressivamente fino al tonfo di Cymbeline, che tentava lo stesso lavoro di Hamlet rileggendo Romeo e Giulietta ma finiva per sfociare nel ridicolo fra selfie e videochiamate fra amanti. Già dal successivo Experimenter, interessante quanto imperfetto, Almereyda ha però ricominciato a lanciare segnali di ripresa, che parrebbero essere diventati con il buonissimo Marjorie Prime, film complesso e dalle mille stratificazioni, un autore pienamente ritrovato. Parte del merito va senza dubbio all’omonima pièce con la quale Jordan Harrison ha sfiorato, senza vincerlo per un soffio, il premio Pulitzer, ma sono molti i meriti nell’adattamento e nella regia cinematografica di Michael Almereyda, capace di sfruttare l’impianto teatrale senza mai ripetere la stessa inquadratura, sottolineando i frammenti di memoria e i momenti cardine con istanti di solitudine sul mare o sulla televisione e misurati quanto poetici flashback, compiendo salti e sbalzi temporali che solo le sfumature dei dialoghi, e mai uno “spiegone”, renderanno chiarissime dopo pochi minuti della sequenza successiva. È un film profondamente emotivo, Marjorie Prime, toccante, immersivo nelle tante parole e nelle (in)evitabili ripetizioni, e al contempo è un film che riflette compiutamente sulla memoria, sull’elaborazione del lutto, sulla sostituzione delle persone con software e sull’inutilità, quando non apocalittico orrore, di questo processo – “Sto parlando da solo, avevi ragione”. È un film ambizioso, potente, ragionato, che sa interrogarsi sull’identità, sulla solitudine, sulla precarietà dei ricordi come su quella della stessa vita, sulle relazioni fra gli esseri umani, sul dialogo, sulla musica, sulla messinscena, sui gusti personali, sulla tecnologia, sulla robotica, sulla sostituzione, sui tempi che cambiano. E soprattutto sull’umanità, sempre meno scontata e mai così tanto necessaria.
Marjorie Prime è un film in cui si arriva al paradosso in cui i rapporti fra madre e figlia possono essere sinceri solo quando si interagisce con un ologramma, “la mia Marjorie” ri-creata da un computer, mentre ai tempi della carne era sempre regnata una freddezza destinata a propagarsi nelle generazioni. Ma il ritorno all’umano sarà inevitabile: basta una nipote adottata e di gran cuore, basta un nonno che diventa anziano lontano dai Prime e dal loro mondo di plastica. L’umano, quello che i Prime inseguono per programmazione, ma che nemmeno gli esseri umani “veri” hanno come caratteristica davvero intrinseca e innata. L’umano, ovvero un qualcosa che va cercato e coltivato, che va raggiunto con gioie e dolori, con traumi e piaceri, con i sentimenti e con i rapporti con gli altri. Solo che anche i rapporti umani spesso sono difficili e magari fasulli, sono relazioni scricchiolanti, fatte di compromessi e tradimenti proprio come quelli della memoria, e dell’alcool che ora la rischiara, ora la annebbia. Come si sostituisce un barboncino con uno identico, gli si dà lo stesso nome e dopo qualche anno non ci si ricorda quale fosse Toni e quale fosse Toni 2, i Prime sostituiscono una mancanza. E come Walter ha fatto compagnia negli ultimi mesi a Marjorie, sarà Marjorie Prime a dialogare finalmente con Tess, la figlia, permettendole finalmente di dire a una madre tutto ciò che le era rimasto dentro. Permettendole di parlarle apertamente di come Raina, che aveva a sua volta portato in grembo, non volesse più sentirla nemmeno per telefono. Permettendole di dirle apertamente come non fosse mai riuscita a capire la sua capacità di lasciarsi tutto alle spalle e andare sempre avanti senza fare una piega. Fino a quando, ulteriore ribaltamento fra vivi e morti, fra uomo e proiezione, fra carne e digitale, non toccherà alla stessa Tess diventare l’ologramma per Jon, l’unico che ha avuto a che fare con tutti e tre i Prime, colui che saprà rendersi conto della loro inutilità ed evanescenza, della loro dipendenza da una memoria affidata a un bigliettino, o alla storia di un suicidio che solo lo stesso Jon può sapere se sia vera o meno. Non certo Tess Prime che pure la raffigura e finge di averla riportata in vita, né tanto meno noi, il pubblico.
Affidato alla recitazione magnificamente dimessa di Tim Robbins e di Geena Davis, il dialogo fra marito e proiezione della moglie è uno degli apici più emotivamente strazianti del film, ma è anche il momento in cui i Prime smettono di essere d’aiuto, rivelandosi semplicemente per quello che sono: fantasmi digitali, spugne da riempire e plasmare a proprio piacimento, non-esseri incapaci di avere una propria coscienza e una propria umanità, ma che si limitano ad assecondare. I Prime, pur volendolo, non riescono a provare emozioni, la tecnologia non è ancora sufficientemente avanzata per questo, e non riusciranno mai a capire come i rapporti umani possano chiarirsi e ottenebrarsi proprio come quello fra Marjorie e Jon, genero inizialmente rifiutato e poi unico reale appoggio. E quindi fingono, illudono, rispondono a chi sta, consapevole o meno, parlando da solo. O forse non più, perché quando si può andare avanti con un essere umano vero, la nipote, Jon abbandona i Prime, li rifiuta, ma non può (più) cancellarli. Sono destinati a vivere di vita propria, da un lato come ricordi che sopravvivono a chi li ha vissuti, dall’altro come inquietanti fantasmi che modificano la nostra memoria a ogni nuovo passaggio e a ogni nuovo racconto. Mentre Jon invecchia lontano da tutto, guardando il sole con il calore di una persona da amare – “Che bello che io abbia potuto amare qualcuno” –, Walter Prime, Marjorie Prime e Tess Prime si ritrovano a casa di Marjorie, mentre fuori, sulla spiaggia, nevica. Sopravviveranno forse per sempre, e sempre più “falsi”, sempre più mendaci, a limare un ricordo, a scambiare i due Toni, a fingere di essere chi non possono essere. Morto l’uomo regna la confusione, regna il caos, regna l’inquietante illusione, regna la solitudine, regna il nulla. Regna la paura, in un certo senso, regna la digitalizzazione selvaggia che annichilisce e annienta l’uomo. Marjorie Prime, nel suo procedere progressivo verso l’amarezza e la solitudine, è un film di viva intelligenza, capace di sfruttare l’ambientazione fantascientifica per costruire un qualcosa che è al contempo acuto, vibrante ed emozionante quanto profondamente inquietante nella sua riflessione sull’avanzare dell’intelligenza artificiale, e su come questa possa prima o poi sostituirci vivendo al posto nostro, prendendo il sopravvento persino su noi stessi e sulla nostra memoria. Una memoria magari fatta a frammenti – il mare, la piscina, la vecchia fotografia, quel sorriso di Cameron Diaz visto in televisione, o forse al cinema, e il problema è proprio non riuscire a ricordarlo – ma pur sempre una memoria viva, collegata a un cuore, collegata a un’identità. Collegata a un essere umano, ciò che dovrebbe sempre stare al centro, e che invece sta finendo sempre più relegato ai margini.
Marco Romagna