30 Agosto 2024 -

MARIA (2024)
di Pablo Larraín

Il cineasta cileno Pablo Larraín continua il suo coerente percorso d’autore con Maria, in Concorso alla Mostra del Cinema di Venezia 2024, dedicato alla dirompente figura di Maria Callas, La Diva per eccellenza della lirica italiana ed internazionale, prematuramente deceduta nel 1977 all’età di cinquantatre anni nel suo appartamento parigino, in circostanze magari non proprio misteriose ma di sicuro poco chiare e su cui negli anni sono fiorite speculazioni su speculazioni. Il film si concentra sull’ultima settimana di vita dell’artista, riproposta in flashback; nelle fasi iniziali della pellicola (questa volta termine non desueto, il direttore della fotografia Ed Lachman, tra i principali e più bravi in attività, ha girato in 35mm per poi riversare) la macchina da presa si avvicina lentamente alla stanza dove giace Maria Callas, pietosamente coperta da un divano che si frappone fra lo spettatore e il corpo impedendo lo sguardo diretto (e morboso). Se si ritorna con la mente alla dipartita in favore di camera di Marylin Monroe in Blonde di Andrew Dominik (a Venezia nel 2022, sempre in Concorso) è subito chiara la diversità di approccio tra due opere con più di un punto in comune, uno dei quali, oltre ai giochi di formato e di BN/colore, è proprio la presenza di Marilyn anche in Maria mentre, con il suo celeberrimo «Happy birthday mr. President», augura buon compleanno dal palco al suo amante “segreto” JFK, cantando “senza voce” come da sapido commento della stessa Diva dalla platea. Oltre a Marilyn, anche Jackie Kennedy è una figura femminile mai in campo ma presente: ricordiamo che questa sorta di trilogia larrainiana sulle iconiche figure femminili del Novecento attorniate da soffocante potere maschile era iniziata proprio con un film su di lei nel 2016, interpretata da Natalie Portman, per poi proseguire con Spencer nel 2021 (Lady D/Kirsten Stewart), che condivide con Maria lo sceneggiatore Steven Knight (Jackie, premiato proprio per la sceneggiatura ai tempi a Venezia, era scritto invece da Noah Oppenheim). La connessione tra Jackie e Maria è l’amore di/per Aristotele Onassis, che dopo la morte per assassinio del presidente americano lascia la seconda per la prima, per di più sposandola in seconde nozze. Due greci, lui e la Callas, anche se quest’ultima riscopre il rapporto con la madrepatria solo nell’ultima parte della sua vita, dopo essere stata naturalizzata cittadina italiana e aver ricevuto i natali negli States. Conflittualità con la madrepatria e con la madre tout-court, che nei duri tempi della seconda guerra mondiale faceva prostituire con i soldati occupanti lei e la sorella Iakinthi (interpretata, da adulta, da Valeria Golino), mostrandola imberbe ma già dotata di gran talento canoro. Come chiosa Maria in una battuta del film: «Mia madre mi obbligava a cantare, Onassis me lo impediva». E Onassis, invece, in relazione all’apparizione canterina di Marilyn: «Di lei interessa a tutti solo il corpo, di te solo la voce». Bastino questi due esempi per comprendere la sentenziosità delle battute e di molti passaggi dialogici della sceneggiatura, per un film (o forse sarebbe meglio dire meta-film auto-costruito in punto di morte) interamente ambientato nella testa della sua protagonista e quindi imperniato della più assoluta soggettività. Può riuscire a farlo uno sceneggiatore di sesso maschile? Visto il taglio scelto sì, perché la Nostra cerca continuamente il rispecchiamento negli occhi e nell’ammirazione altrui, il rifugio nell’illustre passato e negli sguardi adoranti della gente comune.

Dipendente da medicinali che le facilitano il sonno e le calmano i nervi, su tutti il metaqualone Mantrax, Maria vive sospesa tra sogno, ricordo e realtà, davanti ai suoi occhi il mondo intero si mette in scena, e ogni sua passeggiata è accompagnata da coreografie di stampo teatrale en plein air. La (come sempre) sofisticata messa in scena del cineasta cileno riempie le inquadrature di rimandi e suggestioni, su tutte il rimosso psicologico semovente di un pianoforte inutilmente spostato da una parte all’altra dell’appartamento dai suoi due fidati domestici, italiani nella realtà e nella finzione (li intrepretano un Pierfrancesco Favino al solito molto compreso nel ruolo e una Alba Rohrwacher abbastanza stinta, a partire dalla caratterizzazione di costumi, trucco e parrucco). Sono loro due le persone sicuramente “reali” che attorniano Maria, mentre tutto il bailamme di giornalisti, biografi e maestri di canto con cui s’intrattiene sono/potrebbero essere frutto della sua mente turbata e intossicata. Al contrario della Norma Desmond di Viale del tramonto (il film rimanda a tanti personaggi wilderiani, come ad esempio Fedora), non desidera l’immediato ritorno in scena, conscia di non essere più in grado di raggiungere gli eccelsi livelli passati, ma piuttosto quello di “sporcare” le interpretazioni uscendo dalla perfezione precedente, che non appartiene alla vita ma solo, e nemmeno poi così spesso, all’Arte. Ma ritornare nell’aurea mediocritas che tutti accomuna per lei risulta semplicemente impossibile.
Tanti gli elementi che riportano a film precedenti di Larraín, Jackie (come già accennato) su tutti. Lì la protagonista, a una settimana dal terribile evento di Dallas, ricostruiva ex post la mitologia della Camelot kennedyana, riscrivendo letteralmente la Storia ad uso e consumo di media e inconsolabili sostenitori. Qui invece siamo nella settimana precedente alla dipartita, come fossimo all’interno di uno specchio, e la protagonista riscrive la propria quotidianità vivendo de relato, senza più alimentarsi o cercare di adattarsi al tempo presente. I ricordi della sua giovinezza sono sempre filtrati da tutto questo dispositivo e quindi, al di là delle esibizioni canore documentate e pubbliche, tutto è opinabile, persino la precedentemente nominata prostituzione giovanile. Addirittura, nella sequenza della festa dei Kennedy, ci si aspetta di veder comparire da un momento all’altro Natalie Portman al braccio del presidente, in un universo larrainiano che avrebbe stuzzicato gli appetiti di più di un cinefilo. Non succede, ma è proprio l’assenza di una NUOVA attrice che interpreti Jackie a rinforzare questa suggestione invece che smentirla. Bisogna far cenno, naturalmente, anche alla magnifica e mimetica interpretazione di Angelina Jolie, che non era così brava dai tempi del Changeling eastwoodiano di svariati lustri orsono. In alcune inquadrature, sotto alcuni tagli di luce, di profilo, Angelina Jolie sembra addirittura Natalie Portman: due donne dal percorso opposto, dall’ombra alla luce e viceversa, incontrantesi fuggevolmente nell’amore di un (per sua stessa definizione) brutto uomo ricco.
È sicuramente impossibile comprimere una vita in due ore, ma fanno specie le assenze di alcuni momenti chiave, su tutti la sua unica interpretazione cinematografica nel ruolo della Medea pasoliniana e il complesso rapporto proprio con il regista/poeta/scrittore. Al film non mancano alcune cadute di tono e passaggi a vuoto, ma crediamo di poter soprassedere in luogo di una visione tornata splendente dopo almeno un paio di passaggi per lo meno deludenti (Spencer e El conde, per chi scrive). Dopo le approfondite analisi sull’oscuro passato del suo Cile in storie rigonfie di uomini, il regista è passato dall’altra parte della barricata nella seconda parte della sua carriera, raccontando la sofferenza delle icone novecentesche al di fuori della scena, nel privato, e nel rapporto tra quest’ultimo e il proscenio, mediatico o teatrale che dir si voglia, per poi lanciare uno sguardo anarchico e rivoluzionario verso il futuro con il largamente incompreso Ema. La sua è una cinematografia imperniata sul concetto (logorante) del potere (questa volta non più politico o economico, ma della notorietà che diventa gabbia e ossessione) e del senso di colpa, sul complicato rapporto col privato e con la Storia, continuamente inseguita come faceva l’ispettore Peluchonneau con il poeta e premio Nobel nello splendido Neruda. Ma è anche, forse soprattutto, un regista capace d’imbastire sequenze fulminanti, come la dolente Butterfly (ri)cantata sotto la pioggia battente da una Callas mai così Divina, avvolta nei ricchi costumi realizzati dal nostro Massimo Cantini Parrini che nobilita, ancor più degli interpreti nostrani, la coproduzione della italica The Apartment di Lorenzo Mieli.

Donato D’Elia

“Maria” (2024)
Biography, Drama, Music | Germany / United States / United Arab Emirates / Italy
Regista Pablo Larraín
Sceneggiatori Steven Knight
Attori principali Angelina Jolie, Haluk Bilginer, Valeria Golino
IMDb Rating N/A

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