“Riguardo il tempo reale, è un qualcosa che serve per far emergere l’energia dell’essere umano: io non filmo attori, io filmo esseri umani, io non svolgo il cast su attori, ma su esseri umani. Proprio per questo non amo gli attori professionisti, non credo che il lavoro dell’attore possa essere un [in italiano, n.d.r.] “mestiere”, sono tutte cazzate. È un’attività come tutte le altre attività: non c’è il “mestiere” del dottore, ci sono i suoi studi alla base, ma poi serve la sua capacità anche umana. È per questo che abbiamo pessimi medici, pessimi avvocati, pessimi professori, perché pensano che il diploma che hanno ricevuto dia loro il diritto di comportarsi come si comportano. Quello che sto dicendo è che non esistono professioni, solo missioni. Non ci può essere la professione dell’attore, ma solo la sua missione. E così esiste la missione del dottore, la missione dell’avvocato, la missione dell’insegnante, la missione dell’ingegnere, e così via. E la missione di chi decide di prendere parte a un film deve essere quella di rivelare se stesso in quanto essere umano, non di “creare” un personaggio. Il cinema è contaminazione, in primo luogo con la magia, e questo è un problema perché diventa molto difficile guardarsi allo specchio. Io penso invece che il cinema sia come una pistola, e che se la punti nella direzione sbagliata puoi uccidere qualcuno. La macchina da presa, in questo senso, è una mitragliatrice con cui si può uccidere persino il re”.
Cristi Puiu, intervista rilasciata a Quinlan.it, Trieste, febbraio 2017.
Quando si pensa alla definizione stessa di “Nuovo Cinema”, viene quasi automatico immaginare una proficua e continua collaborazione fra i vari autori che ne fanno parte. Del resto, ogni new wave non può prescindere dalla creazione di un terreno comune per tematiche, in genere strettamente correlate a un luogo e a una ben precisa contingenza storico-politica, e per modalità cinematografiche, che ogni autore interno alla corrente rielabora facendo germogliare la propria lingua filmica e le proprie istanze. La Storia del cinema, in questo senso, ci offre gran copia di esempi illustri, dalla profonda amicizia che legava, all’interno del Neorealismo, Rossellini e De Sica, fino a quelle continue frequentazioni in giro per le sale parigine e nella redazione dei Cahiers du Cinema che diedero vita alla Nouvelle Vague francese, passando per il sostanziale gruppo di amici della Nova Vlna cecoslovacca, per il rapporto quasi padre-figlio fra Edward Yang e Hou Hsiao-hsien a far grande Taipei e per il magnifico sogno, forse utopistico, della Bel Air di Sganzerla e Bressane come scheggia Marginale e (ancora più) impazzita nel Nuovo Cinema Brasiliano. Per giungere fino a oggi, con l’attuale miracolo di un cinema filippino che continua a crescere sotto l’ala di Lav Diaz e delle produzioni indipendenti, e con le cinematografie dell’Europa centro-orientale ormai tese ai vertici mondiali.
In particolare, le opere cinematografiche d’autore in arrivo negli ultimi 15 anni dalla Romania post-Ceausescu costituiscono a tutti gli effetti una Nouvelle Vague per la coerenza tematica, stilistica e linguistica che emerge dall’insieme dei vari sguardi, per la necessità di rimanere fortemente ancorati alla realtà, per lo studio approfondito dei rapporti interpersonali, per la denuncia di una società corrotta e che ancora fatica, dall’89, a lavarsi via le scorie di un regime durato 24 anni, per la profonda (dis)umanità ironica e tragica che sgorga dal dubbio, dal segreto, dalla stortura etica, dal malinteso, dal più ancestrale senso di colpa. Il Nuovo Cinema Rumeno è fatto di piccole storie, di deboli, di quotidianità, di gente comune – spesso attori non professionisti – e di sconfinata sincerità; è un cinema che si interroga su come ieri sia ancora una metastasi dell’oggi, e su come il futuro sia troppo spesso nebuloso, fatto di scelte sbagliate, di illusorie scorciatoie che si rivelano spirali distruttive, oppure su come la speranza sia l’ultimo barlume per poter continuare a lottare ogni giorno per la propria autodeterminazione. Tuttavia Cristi Puiu, che di questa corrente cinematografica è considerato il capostipite ed è, insieme a Corneliu Porumboiu e Cristian Mungiu, seguiti a ruota da Radu Muntean, Calin Peter Netzer e Radu Jude, fra le principali firme, negando ogni tipo di collaborazione fra i registi che gravitano in questi anni intorno a Bucarest ha dichiarato più volte di non amare affatto la dicitura Nuovo Cinema Rumeno, pur conscio che sono stati proprio i suoi primi due lungometraggi, Marfa si banii (Stuff and Dough) (2001) e La morte del signor Lazarescu (2005), a porre e poi definitivamente codificare le regole di una cinematografia che si tuffa con sguardo così radicale nella realtà sociale del proprio Paese.
Il Lucca Film Festival 2017, nella sua ormai consueta cura per le retrospettive personali che hanno, rimanendo solo agli ultimi anni, portato nella piccola città toscana artisti del calibro di David Lynch, Julio Bressane, George Romero, William Friedkin, John Boorman, Terry Gilliam e, nella forzata contumacia di un regista al quale i medici in quel periodo avevano proibito di partire per voli così lunghi, buona parte della filmografia di David Cronenberg, ha deciso quest’anno di dedicare un focus completo all’opera di Cristi Puiu, partendo dagli esordi per giungere, in un viaggio attraverso le sue (saranno Sei – attualmente da completare) Storie alla periferia di Budapest, fino all’ultimo Sieranevada, il fluviale, agrodolce e umanissimo ritratto di famiglia in un interno nettamente fra i migliori film dello scorso Festival di Cannes. Quello di Cristi Puiu, e (non solo) per osmosi quello dell’intero movimento cinematografico che, volente o nolente e senza nulla togliere alla sua autorialità personalissima, unica e perfettamente riconoscibile, rappresenta, è un percorso in costante costruzione, necessariamente ondivago, partito dal budget risibile di un road movie largamente improvvisato e dal taglio quasi documentaristico e giunto a tappe, per ora, a una scrittura estremamente fitta che accompagna una messa in scena audace, studio costante e approfondito degli spazi con pianisequenza che ridiscutono gli stessi concetti di campo e controcampo.
Quella di Cristi Puiu è una lingua cinematografica viva e pulsante, in continua evoluzione, popolare nell’afflato quanto prettamente autoriale nelle forme e nelle stratificazioni, sempre diversa eppure sempre crepitante, riconoscibile e coerente nelle sue varie forme. Le trame, nell’opera di Cristi Puiu, sono poco più che un pretesto, una semplice occasione narrativa per poter lasciare interagire gli esseri umani: quello che interessa davvero al regista, e più in generale al Nuovo Cinema Rumeno, è l’uomo, è la sua personalità, sono le sue reazioni, e in secondo luogo la sua interazione con la realtà in una quotidianità fatta di povertà e di corruzione, di strascichi storici e di incertezza, di anime differenti, destinate a scontrarsi anche all’interno della stessa famiglia riunita per la commemorazione di Sieranevada, destinate a vagare da un ospedale all’altro per tutta la notte fino alLa morte del signor Lazarescu, oppure destinate a uccidere e poi a confessare al momento dell’Aurora. Già, anime, che sin dal debutto possono radicalmente cambiare quasi in tempo reale davanti alla macchina da presa, magari nel corso di un viaggio in cui ci si rende conto di essersi infilati in qualcosa di troppo più grande e pericoloso, ma ormai è impossibile tornare indietro.
In primo luogo, per poter approcciare l’opera prima di Cristi Puiu Marfa si Banii, internazionalmente conosciuta come Stuff and Dough (letteralmente: “Roba” e denaro) e attualmente ancora inedita in Italia, è necessario tornare al cinema di John Cassavetes, scoperto, studiato e amato da Puiu nel corso dei suoi studi in Francia, e punto di riferimento fondamentale con i suoi “saggi collettivi di recitazione e di regia” per la nascita artistica del regista rumeno. La caratteristica fondamentale mutuata da Cassavetes, sulla quale Puiu ha cucito il suo talento, la sua scelta di lavorare con attori non professionisti e il suo fondamentale legame con la contingenza storica, è il cinema come lavoro di gruppo, nel quale il regista deve avere le redini in mano, ma sta ad ogni parte in causa tirare fuori la propria personalità, la propria sincerità, la propria intimità. Da un canovaccio e dalla condivisione si crea la finzione insieme, nel tempo, come se non fosse una vera e propria finzione, ma una piccola porzione di realtà che scarta dai binari e prende una vita parallela, e appunto fortemente realistica, sullo schermo. Proprio per esaltare la veridicità di ciò che Stuff and Dough racconta fra le righe dei multiformi dialoghi fra i protagonisti, Cristi Puiu ha optato per una macchina da presa attigua al documentario, a mano, presente, viva e mobile come un personaggio, e per fugare con intelligenza gli ovvi problemi di budget in un film d’esordio nella Romania del 2001 si è fatto forza dei limiti produttivi e della necessità di girare nel minor numero possibile di take per osare, con una messa in scena fatta di elaborati pianisequenza e soprattutto con un montaggio che aggiunge ritmo narrativo e visivo con una serie di piccole ellissi e di raccordi audaci, lontani da ogni stilema del cinema classico quanto perfettamente funzionali per una simile modalità narrativa, al contempo asfittica nel procedere funereo degli eventi e dilatata in un ampio respiro di silenzi e di risate. È un microcosmo cinematografico vitale, in cui tutto ciò che è sincero si pone come filmabile, dall’affidabilità di una persona scherzosamente testata in base alle sue abitudini nell’andare di corpo al sicario mandato in soccorso ai corrieri, dai tempi morti di ogni conversazione agli scambi al volante, dalle ferite per i vetri rotti alla voglia di un gelato in barba ai rischi e alle precise richieste.
Memore degli inseguimenti dello Spielberg di Duel e della suggestione tarantininana della valigetta dal contenuto misterioso di Pulp Fiction, Stuff and Dough è la provincia rumena fra gli anni Novanta e i primissimi Duemila, con i primi cellulari, con il dramma della quotidianità nel gestire un negozio nel quale mancano persino i beni di primissima necessità come l’olio, con i pochi Len da centellinare e comunque insufficienti per portare avanti un’esistenza serena, e magari, per far buon peso alla situazione, pure con la nonna semiparalizzata. Quella messa in scena è una Romania nella quale un viaggio da Constanta a Bucarest, poco più di 200km, necessita di quasi cinque ore, fra le infrastrutture ancora insufficienti e i mezzi di trasporto preistorici che le popolano, in un traffico nel quale un vecchio Ducato arrugginito e rumoroso, in mezzo alle Dacia, detta legge. È una Romania fatta di segreti e di omissioni, di gerarchie e di “rispettabilità”, di bullismo e di denaro contante come motore che tutto può muovere. È una Romania nella quale, quando un poliziotto ferma i protagonisti per eccesso di velocità, sarà sufficiente pagarne il silenzio perché chiuda gli occhi anche su una patente tatticamente “dimenticata a casa”. Stuff and Dough si nutre di una realtà drammatica, pesante, che si vuole lasciare prima possibile alle spalle, una realtà per la quale non vale la pena svegliarsi la mattina o quanto meno non presto, ma nel cuore del giovane Ovidiu alberga il sogno di poter allevare animali in una stalla tutta sua, e quando all’orizzonte, nel corpo del boss locale, giunge la prospettiva di un guadagno facile per poterlo coronare, il giovane è incapace di valutare i rischi. È un “semplice” viaggio, del quale sulle prime Ovidiu non intravvede il losco per quanto la consegna dei sei pacchetti venga pagata come due anni di normale stipendio, un viaggio del quale accetta di sapere il meno possibile e del quale crede di poter contravvenire sin da subito alle poche ma ferree regole di solitudine e segretezza, finendo per coinvolgere altre persone, il socio Vali e la sua fidanzata Betty, nella spirale degli eventi.
Prima è un dito malandrino con spropositata reazione, poi è una Toyota identica a quella degli aggressori che casualmente rimane dietro al furgone, poi è una segnalazione telefonica del pericolo, e infine è il più atroce fra i malintesi, con il sangue innocente di una famiglia la cui unica colpa era quella di possedere l’auto sbagliata ad annegare nel dolore e nei sensi di colpa tutta la gioia di gioventù. Ovidiu, come un Icaro accecato dalle prospettive di facile guadagno, si ritrova invischiato nel vicolo cieco della criminalità, si ritrova tre persone sulla coscienza per una richiesta male interpretata e ancor peggio indirizzata, ed è così costretto a crescere all’improvviso e nel peggior modo possibile, portando con sé Vali che invece, privo di voli pindarici, nella sua beata innocenza spensierata sarebbe rimasto molto volentieri.
Stuff and Dough è l’autoradio che spara i suoi successi in musicassetta mentre i tre protagonisti a bordo del furgone finiscono, come se i misteriosi pacchi nella borsa nel vano di carico avessero in seno una forza distruttiva, per macerare, per pagare a un prezzo salato la propria superficialità, per logorare progressivamente i propri rapporti. Per rendersi conto che è finita l’età dei ritardi e della faccia tosta, ma anche per svoltare così radicalmente, in peggio, le proprie vite, consegnate in sostanza in mano alla malavita. L’opera prima di Cristi Puiu, per quanto forse, specialmente alla luce dei grandissimi film successivi, non ancora pienamente matura, faceva già ampiamente vedere di quale pasta e potenza fosse l’autore, e quali fossero le sue ossessioni da declinare ogni volta su uno schermo. Marfa si banii, neorealista e straordinariamente umano, è un canto generazionale amaro e sincero, dal quale emerge una fase storica di passaggio, e in un certo senso anche la necessità di prendere una distanza temporale dal regime di Ceausescu – al tempo erano poco più di 10 anni, oggi ne sono passati più di 25 eppure la sedimentazione forse non è ancora sufficiente – per poter davvero cercare di capire un Paese attraverso chi quotidianamente lo vive e subisce. È un film d’atmosfera e di straordinaria vitalità, fra il road movie e un romanzo di formazione che poi è un disfacimento, fra la noia familiare di una madre preoccupata e le atmosfere thriller dell’aggressione, fra il senso del dovere che si fa sentire solo quando diventa un cappio al collo e le disparità di vedute che portano al gelo, fra il quotidiano tirare sul prezzo al mercato e il ragazzo che gioca a fare il gangster fino a quando la situazione non gli è totalmente sfuggita di mano, e rimane solo lo spazio per un nugolo di curiosi intorno alla Toyota, per le gole innocenti tagliate, per il mutismo, per la devastazione, per la colpa. Per la morte, e per il ricatto subito da chi vorrebbe gratitudine per il suo orrendo e insano gesto: quando il vicolo cieco nel quale ti sei incautamente infilato ti si richiude alle spalle, ed è assolutamente impossibile riuscire a intravvedere uno spiraglio di luce.
Marco Romagna