Nessuno al mondo gira le scene d’azione come lo fa John Woo. Nemmeno Micheal Mann, nemmeno George Miller, nemmeno (più) i grandi giapponesi/coreani/hongkoghesi, e nemmeno, che piaccia o meno va citato, Micheal Bay. Manhunt, presentato fuori concorso al Lido di Venezia quasi in chiusura della 74ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, è un inarrestabile turbinio di inseguimenti, omicidi, combattimenti corpo a corpo, proiettili, spari, esplosioni, mirini, salti acrobatici e vetri sfondati, messi in scena da Woo con una velocità forsennata, quasi futuristica, fatta di costanti movimenti di macchina, montaggio straordinariamente serrato, dissolvenze incrociate e ralenti, fra scarti di ritmo e repentini fermi immagine che bloccano i protagonisti sullo schermo. Fra mezzi di trasporto lanciati a tutta velocità, incidenti stradali, bikers e sicari, yakuza e polizia, cospiratori e incastrati, inseguimenti con qualsiasi mezzo di trasporto e le immancabili colombe in volo, Manhunt è una corsa a perdifiato nel cinema di John Woo che quasi relega la narrazione al fuori campo, integralmente affidata ai dialoghi, mentre sullo schermo c’è spazio solo per la pura azione, per i continui colpi di scena, per le colluttazioni, per la polvere da sparo, per il sangue rattrappito come per quello liquido e caldo, e soprattutto per i cadaveri, tanti, tantissimi, vittime degli intrighi di potere, dei tradimenti, delle montature che si inseguono senza un solo secondo di respiro.
“A volte parlare di film è solo un modo per provarci”, dice la meno avvenente fra le due letali assassine all’altra, cinefila proprio come è cinefilo l’avvocato cinese, temporaneamente in Giappone per assistere la casa farmaceutica Tenjin, Du Qiu, il quale stava per far saltare il loro piano per la strage quotidiana proprio con i suoi appassionati discorsi sul cinema. E probabilmente, ignaro della spietata killer che si stava nascondendo sotto l’apparente grazia dell’avvenente “barista”, Du Qiu ci stava “provando” per davvero, tanto da andare a recuperare un raro DVD per tornare insieme a quei “vecchi film” in cui John Woo innesta, già nel folgorante incipit, tutta la dichiarazione programmatica di Manhunt. Dopo quasi venticinque anni di stanza (e di cinema) negli Stati Uniti, Woo torna ai “vecchi film”, a quel cinema con il quale si è formato, ha esordito ed è cresciuto. Un cinema fatto di deflagrazioni improvvise di violenza, di ironia sorniona, di passione, di sospensione dell’incredulità. Di pistole, di strangolamenti, di fughe, di lotte, di minacce, di risvegli vicino a un cadavere, di false accuse, di necessità di riabilitare il proprio nome, ma anche di innamoramenti (im)possibili e ricambiati fra la vittima e il carnefice, con un dito che, quando nel centro del mirino vede il proprio cuore, non riesce più a tirare il grilletto.
È un vero e proprio ritorno a casa, quello di John Woo, geografico e stilistico, per un accorato (e divertito) omaggio alle sue passioni giovanili. Per quanto il film sia girato con capitali integralmente cinesi e Woo, nativo della Cina del sud, sia di fatto cresciuto a Hong Kong, per il suo ritorno in Asia il regista decide di atterrare in Giappone, patria del leggendario attore Ken Takakura scomparso nel 2014, che in Europa ricordiamo principalmente per l’interpretazione in Yakuza di Sidney Pollack, e invece in Asia è ricordato principalmente per, appunto, Manhunt, film del 1976 di Junya Sato pressoché sconosciuto da noi, del quale Woo riprende il titolo internazionale e la base di trama dell’avvocato incastrato che deve (letteralmente) combattere per il proprio riscatto. Ma quello di Woo non è un vero e proprio remake, è semplicemente un omaggio, è il programmatico ritorno a quei “vecchi film” senza i quali il (pienamente) suo Manhunt, film totalmente diverso dalla sua fonte di ispirazione e quasi decalogo, fra riferimenti interni e stile, di tutto il cinema del suo regista, non potrebbe esistere.
Manhunt è un film profondamente cinese, anzi hongkonghese, e non nipponico; è il risveglio di un qualcosa che, fra ricambi generazionali e politiche censorie, sembra quasi non esistere più, e invece ancora può vibrare e pulsare della sua urgenza, della sua potenza, della sua profonda ironia. Manhunt è una scossa tellurica costante, è un vulcano in eruzione, è uno tsunami che si abbatte sia sulle politiche produttive ed economiche del cinema di oggi sia sullo spettatore, a bocca aperta di fronte alla messa in scena, alla tenuta narrativa, al ritmo vorticoso, al multilinguismo che usa l’inglese come ponte fra cinesi e giapponesi e alle molte, fra occhi, inquadrature di sbieco e dissolvenze, intuizioni visive di un Maestro dell’immagine. Du Qiu, incastrato dalla stessa ditta per la quale lavora per coprire l’omicidio di una giovane donna per la semplice “colpa” di essere rincasato nel momento sbagliato, è la vittima sacrificale di un sistema che vuole sostituirsi a Dio, progettando un farmaco in grado di trasformare i soldati in super-uomini dalla forza sovrumana e dalla rabbiosa schiuma alla bocca, fra l’evoluzione della specie e la regressione agli istintivi richiami animaleschi. La Tenjin farmaceutica della finzione è una lobby potente e pericolosa, fatta di yakuza e (avvenenti) sicari(e), fatta di scienziati pazzi e di spietati interessi, fatta di fumose zone d’ombra e di codici criptati segreti, ma anche di crisi di coscienza, quelli che hanno portato uno scienziato al suicidio sull’altare pur di non vedere le sue scoperte in mani criminali.
Woo unisce in matrimonio l’azione e l’epica, la tensione e la poetica, il fuoco e l’ironia, la coscienza e la vendetta, e il risultato è un film totalizzante, espanso, stordente, sincero, dirompente. Ci sono le assassine, c’è l’avvocato incastrato e fuggitivo, c’è il poliziotto incaricato di arrestarlo che si convincerà della sua innocenza fino a combattere insieme (anche ammanettati, come in The Killer) alla ricerca della verità e della giustizia, c’è la sua timida assistente, ci sono i piani alti ed ereditari della potente casa farmaceutica, ci sono i prigionieri usati come cavie umane, e c’è la sposa/vedova che mai ha lavato il sangue dal vestito e che ancora vaga alla ricerca di vendetta. I piani narrativi si moltiplicano, divergono e convergono, fra folli corse a piedi davanti ai treni della metropolitana e spettacolari inseguimenti a piedi, al volante o in sella alle stesse moto d’acqua di Face/off, fra peripezie di ogni tipo e aggressività indotta chimicamente, fra farmaci illegali e destini che si intrecciano, fra proiettili che sibilano e corpi che cadono su altri corpi. Fino all’esplosione definitiva, alla distruzione delle fiale, alla partenza sognante di un vecchio treno sul quale sposarsi. Il Manhunt di Woo non è un’operazione nostalgia, ma è un lavoro sincero, vitale, sognante. Divertente, travolgente, strepitoso. Del resto, “i vecchi film finiscono sempre così”, e gli applausi sono sempre stati, a ragione, fragorosi.
Marco Romagna