Quentin Dupieux è semplicemente ‘folle’, se volessimo riassumerlo. Dalla doppia carriera DJ/regista, fino alle storie grottesche che vuole raccontare e i micro-mondi in cui esse si svolgono. Una realtà in cui un copertone è un serial killer, una in cui tutto è sbagliato incluso gli orologi, una di sbirri con vite fuori di testa. Ora, dopo la (quasi) teoria dei più ambiziosi Reality e soprattutto Deerskin, in Mandibules è tempo di un mondo di mosche giganti e amicizie eterne, in cui provare a spiegare significa inevitabilmente perdersi. Delineare perché è stata una visione interessante è pressoché impossibile, si scadrebbe in un nonsense critico che rivaleggerebbe l’associazione libera di idee che rende così vivace la visione di Mandibules. Si può descrivere il film per quello che è: un buddy movie, con due protagonisti irresistibili (e oltremodo idioti), i pressoché analfabeti senzatetto Manu e Jean-Gab, interpretati da due comici francesi, che sognano di raggiungere la loro utopia individualista di ricchezza e pigrizia attraverso una commissione per conto di una specie dicriminale, senza alcuna coscienza di cosa effettivamente debbano fare. Rubata una macchina con cui procedere nella missione, ne aprono il bagagliaio e vi trovano, appunto, una mosca gigante. Decidono di provare un nuovo percorso, ammaestrare la mosca, allenandola a rubare per conto loro cibo ed elementi essenziali alla vita, per vivere per sempre senza dover dipendere dai soldi, che non saprebbero altrimenti come recuperare per campare. Il processo dell’allenamento è lungo, difficoltoso e pieno di sketch deliranti, la maggior parte dei quali girano attorno al batti-cinque alternativo e senza senso dei due protagonisti («Toro»), che viene riproposto ogni due minuti con variazioni di ogni tipo legate ai cambi di contesto continui che rendono la storia un viaggio comico e surreale davvero efficace. La mosca, denominata Dominique, un animatronic costruito e animato benissimo che risulta nel contempo disgustoso e tenero, fornisce vari momenti slapstick brillanti, e Agnes, personaggio secondario interpretato da Adele Exarchopoulos (l’Adele di Kechiche) che ha avuto un danno cerebrale in seguito a una caduta, è comunque, in modo folle, il personaggio più assennato di tutto l’ensemble di figure che interagiscono con Jean-Gab e Manu. Questo è quello che il film è, e la visione rivela poco altro oltre all’essenza narrativa che l’esperienza di visione fornisce, ovvero un viaggio leggero e umoristico, che sorprende e diverte senza davvero cercare una profondità. Ma cos’è che il film rappresenta? È solo un atto demenziale di umile resa di fronte alla natura folle dell’esistenza? O c’è qualcos’altro?
Se c’è qualcos’altro, è difficile da cogliere. Mandibules, nel percorso di Dupieux, è evidentemente un film minore. Eppure è un grande, grandissimo film minore. Divertente, folle, geniale. Di quelli che non bastano mai, fatti di un continuo sviare, di un continuo perdersi nelle tangenti, di una continua e demenziale confusione fra fine e mezzo. Del resto anche nei suoi lavori più riusciti e ambiziosi Dupieux è un regista di divertissement, di quelle che facilmente decidiamo di chiamare informalmente, se mi perdonate il termine, ‘cazzate’, ma che piacciono, comunque, spesso, a tutti quanti gli spettatori del mondo festivaliero che invece, di solito, finisce per disdegnare tali cosiddette ‘cazzate’. La grande domanda è dov’è il confine, e in che dimensione le ‘cazzate’ possono piacere a chi il cinema lo mastica e pensa di essere superiore al mero intrattenimento, in cui senza dubbio Mandibules rientra, senza esplicitare troppo impegno autoriale. La verità è che il mondo interno di Mandibules è coerente e quadrato nella sua assurdità, dai colori pastello alle sovraesposizioni fotografiche, dai ritmi comici basati su suoni e versi alla regia quadrata e mai frettolosa, che in poco più di un’ora e un quarto riesce a racchiudere e concludere coerentemente un filone, un percorso narrativo, il racconto di un’amicizia. Alla fine, si simpatizza con Manu e Jean-Gab non tanto a causa del loro carattere o della loro profondità umana, ma a causa della loro lotta individualistica, figlia dei nostri tempi di delirio, resa, naturalmente, con il delirio che è giusto conferire a essa. La contemporaneità è figlia di questo sogno, raggiungere la ricchezza, la tranquillità, un relax in cui il lusso è scontato, e questo sogno può appartenere a tutti, persino a Manu e Jean-Gab, persone vuote e splendide che non hanno alcun merito, ma che possono e anzi devono sognare. La loro commissione criminale è una dentiera argentata per un vecchio che è ricco da far schifo, quando loro neanche possono permettersi da mangiare, e per sopravvivere non possono che attaccarsi a questi sogni surreali, che tuttavia, per loro, sono praticamente l’unica verità. Se continuiamo a ogni visione a cercare di discutere perché ancora ha senso guardare film e cosa i film dovrebbero fare, Mandibules ci pone di fronte allo stesso quesito che sentiamo di doverci chiedere di fronte alle commedie più stupide e godibili, ovvero: c’è bisogno di un processo intellettuale per metabolizzare un film e gradirlo, o basta riderne? Di fronte all’ultimo film di Dupieux, le opinioni girano attorno alle stesse parole; è, sì, quello che chiunque definirebbe una ‘cazzata’, ma nel suo essere universalmente riconoscibile come geniale, pur in una dimensione pressoché inspiegabile, è, sì, anche un gran bel film, perché è una gran bella esperienza. Inesplicabile, anzi, forse comprensibile solo nella logica che vede gli spettatori in osmosi con la comprensione della natura sognatrice (e idiota) di Manu e Jean-Gab.
Il che in realtà ci porta ad aprire un’altra parentesi, forse esterna al film ma interna all’operazione dell’essere spettatori: cosa ci crea immedesimazione con l’idiozia? L’imperante dissennatezza del protagonista di Uncut Gems, il più perdente tra i vincitori e il più vincitore tra i perdenti, scuote ed emoziona e in egual misura è frustrante e fastidiosa; in che modo Manu e Jean-Gab, che con meno mezzi e in un mondo più stupido inseguono ambizioni analoghe, possono invece essere maschere di un qualcosa di universalmente apprezzabile e divertente? Dupieux è bravissimo a portare il pubblico in una dimensione separata in cui tendiamo ad accettare l’assurdo, e questo è probabilmente il suo maggior pregio, l’autorialità della fesseria che rivela la fesseria dell’autorialità. Ci si trova a vedere tenerezza nell’immagine folle della mosca gigante anche perché si finisce per idolatrare e comprendere la missione del desiderare vederla aiutare fino in fondo i suoi allenatori/amici umani, i nostri eroi senz’arte né parte, i nostri protagonisti sfigati e quindi le persone in cui più possiamo permetterci di immedesimarci in questa dimensione apparentemente vacua. E si crea anche la più meravigliosa delle ambiguità, quella che ci pone nella situazione del vedere parte della storia e immaginarne il seguito, con un finale apertissimo che stuzzica e lascia in bocca il sapore dell’incompletezza, quasi invogliando a volere di più – volere vedere ancora più gag all’interno del mondo di questa ‘cazzata’. Ciò rivela quello che probabilmente è invero ciò che interessa a Dupieux nella dimensione di questa storia, ovvero il voler trovare stupidità nel genio e genio nella stupidità, rivelare la grandiosità della contraddizione col puro intrattenimento, non corrotto dalla ricerca di un senso, un vizio della scrittura occidentale. Viviamo in un mondo di idioti e mosche giganti e forse bisognerebbe solo stare zitti e accettarlo. E chi il film non l’ha visto probabilmente non trova molto senso in queste parole… ma a chi invece ci è entrato, capisce di cosa stiamo parlando, e vive la vita come un sogno o un gioco dell’oca in cui si passa da un incontro assurdo all’altro, ecco, a costoro, probabilmente l’unica cosa da dire, che eliminerebbe anche la veridicità di ciò che la precedete in questo testo, è: «Toro!».
Nicola Settis