17 Marzo 2017 -

MAN ON THE MOON (1999)
di Miloš Forman

“Now, Andy did you hear about this one?
Tell me, are you locked in the punch?
Andy are you goofing on Elvis? Hey, baby
Are we losing touch?
If you believed they put a man on the moon
Man on the moon
If you believe there’s nothing up his sleeve
Then nothing is cool”
R.E.M., Man on the Moon, dall’album Automatic for the People, 1992

Chissà se è morto davvero, Andy Kaufman, o se la sua dipartita a soli 35 anni per una rara e devastante forma di cancro ai polmoni è stata, nel 1984, solo l’ennesima messa in scena, lo scherzo finale, l’ultima sfida, l’apice dell’anti-humor che lo ha reso un entertainer, attore e ballerino unico, innovativo, geniale: il non-comico che non ha mai raccontato una barzelletta in vita sua. Nello splendido finale di Man on the moon, con il ritorno sul palco di Tony Clifton e la macchina da presa che lentamente svela in fondo alla sala Bob Zmuda, amico, autore di Kaufman e soprattutto “altro interprete” del cantante/alter ego arrogante e privo di talento, sempre pronto a provocare e ad aggredire (attori complici fra) il pubblico, creato e impersonato da Kaufman quasi ai limiti della schizofrenia per buona parte della sua vita, Miloš Forman lascia l’ambiguità, lascia un dubbio che nient’altro è che un sogno, apice di un omaggio accorato che, più ancora che rimettere in scena vita e opere di Andy Kaufman, giustificando sin dal monologo iniziale le piccole licenze sugli eventi per “ragioni di natura drammatica”, si interroga nel profondo sulla sua anti-comicità, sul suo studio delle attese nello spettatore, sulla sua capacità di far ridere non per i suoi personaggi e le loro gag, ma di loro, della loro inettitudine, dell’ironia crudele che emerge da una battuta sbagliata, da un’imitazione (volutamente, ma senza avvisare il pubblico) patetica, da un repentino cambio di atmosfera in cui, insieme a un perfetto Elvis, emerge il vero talento non più trattenuto. E in chi assiste allo spettacolo non può che scatenarsi un turbinio di emozioni e reazioni contrastanti fra la risata sadica e la frustrazione, imbarazzati e respinti nel vedere un uomo maltrattato o uno scatto d’ira che rompe ogni tipo di convenzione televisiva, e al contempo attratti dalle derive umane e dal (pianificato) cattivo gusto messi in scena in quel momento con la stessa forza con cui il miele attrae un insetto. L’arte di Andy Kaufman, virata verso l’acido ma per alcuni versi imparentata proprio con quell’ironia sorniona che Miloš Forman aveva sviluppato già agli esordi con Audition, è stata prima di tutto uno studio delle masse e dei loro comportamenti una volta provocate, è stata un esperimento sociale, è stata una forma di (anti)intrattenimento concettuale, estremamente complessa nella sua apparente semplicità, sempre tesa a stupire fra aspettative deluse e messa in scena del peggio di ognuno di noi, atta a far emergere anche dall’intimo del pubblico un sottile sorriso di crudeltà, oppure a sfidare apertamente il suo puritanesimo a costo di subire l’ira e la volontà popolare con l’allontanamento dal Saturday Night Live tramite televoto.

Lo dichiara apertamente sin dall’incipit, con quei titoli di coda lanciati invece in testa da uno Straniero in bianco e nero in modo che lo spettatore “che non capisce, né ci ha mai provato” l’arte di Kaufman creda ancora una volta allo scherzo e abbandoni immediatamente la sala: Man on the moon, prendendo il titolo dalla canzone-omaggio dedicata dai R.E.M., che cureranno tutta la colonna sonora, al geniale performer, veste degli abiti del biopic quello che è un vero e proprio “nuovo” spettacolo di Kaufman, una prosecuzione della sua arte e dei suoi esperimenti sociali legati all’intrattenimento, fatta rivivere nelle membra e nel volto di gomma dell’attore che da Kaufman più è stato influenzato, un Jim Carrey probabilmente all’apice della carriera. È una riflessione profonda sul senso e sulla genialità delle sfide e degli scherzi al pubblico, quello stesso pubblico “in carne ed ossa” che, sin dai tempi del bambino che giocava nella sua cameretta alla stazione televisiva esibendosi per pupazzi e carta da parati, fu per Kaufman il più grande problema e il maggiore interesse, un nemico/amico da sfidare in continuazione in maniera ora aperta e ora sottile, dirigendone i sentori, le idee, le reazioni. Forman rimette in scena gli anni Settanta e le aperte provocazioni sessiste dell’attore, lanciate con tanto di incontri misti di wrestling per parodizzare le derive oratorie dei lottatori sfruttando l’aura di violenza “proibita” che è propria di quel settore di intrattenimento e una pubblica inimicizia sfociata in lotte sul ring e in TV con tanto di rotture del collo (in realtà anche queste costruite fra due ottimi amici e collaboratori) con il lottatore Jerry “The King” Lawler. Forman rimette in scena gli sfondamenti della quarta parete perpetrati da Kaufman uscendo dal personaggio in diretta televisiva e litigando (non è mai stato chiaro, fra i presenti, chi ne fosse al corrente e chi no) con gli altri attori e con gli assistenti di palco, si sofferma sulle spiegazioni agli americani degli Stati del Sud su come usare una saponetta “per togliersi questa puzza”, insiste sulla decisione di bloccare e far ballare l’immagine di uno special televisivo per 10 secondi in modo che gli spettatori si convincessero di avere la televisione rotta oppure cambiassero canale, e fra il mutismo/entusiasmo dello sketch di Mighty Mouse al Saturday Night Live, il rifiuto dello star system e dello show business con la lettura integrale de Il grande Gatzby da sbattere in faccia ai fan della sit-com Taxi che continuavano a chiedergli di interpretare Lo Straniero/Latka, “lo scherzo” di far interpretare occasionalmente Tony Clifton al fido Zmuda per poter apparire a sorpresa accanto a lui sul palco per “sabotargli” lo show irrigidendo un pubblico fino a quel momento ingannato dal cambio di attore e le ripetute apparizioni, a volte con tanto di risse e caffè lanciati in faccia, agli show di un David Letterman prestatosi per un gustoso cameo rifiutando però di farsi ringiovanire dal trucco, Man on the Moon si immerge con passione e cognizione di causa nell’apparente sregolatezza/reale professionalità del suo protagonista, nella sua (anti)comicità sperimentale, nel suo profondo interesse nel manipolare le reazioni di chi assisteva ai suoi spettacoli attraverso le apparenze e le stoccate.

Ma non è certo un film-saggio, quello di Miloš Forman. È un biopic atipico e sognante, è una dichiarazione d’amore che va ben al di là dell’interesse, è un congegno narrativo splendidamente ellittico che, oltre a lasciare il giusto spazio a ogni personaggio della carriera di Kaufman facendolo pulsare nelle vene di un Jim Carrey quasi posseduto dal suo idolo di gioventù e soffermandosi su quale fosse la portata (tragi)comica e la funzione concettuale dei vari Latka, Elvis, Clifton, delle personalità multiple del protagonista di Taxi e delle incursioni dell’attore nel wrestling, non dimentica mai di tenere al centro dell’inquadratura l’uomo, la sua insoddisfazione per i cinque anni in una sit-com che detestava, lo sconfinamento della sua arte nella vita privata con “il perfido” Tony Clifton che per lungo tempo fu considerato dai più una persona distinta, messa perfino separatamente sotto contratto nel tenere il gioco dei pochi che ne conoscevano la natura fittizia e la reale identità, fino alle sue evoluzioni nei bordelli e soprattutto all’arrivo dell’amore di una vita con “la vittima” sul ring Lynne Margulies (interpretata dalla sempre magnetica Courtney Love, alla seconda collaborazione con Forman dopo l’interessante ma più debole Larry Flint generosamente premiato nel 1997 con l’Orso d’Oro a Berlino), che gli starà accanto fino alla fine. Fino al funerale, del quale sarà lo stesso istrionico Andy Kaufman il cerimoniere, proiettato in vita e in forma su uno schermo che in un certo senso sovrasta e annulla la sua morte, ormai calvo per l’inutile radioterapia e bianco nella bara, dissolvendola nell’immortalità dei fotogrammi, nella musica, in un’arte che tanti studieranno, qualcuno capirà, ma mai nessuno riuscirà davvero a portare avanti. Perché, in un certo senso, la straordinarietà umana di un film generalmente, e in maniera piuttosto ingenerosa, sottovalutato nella filmografia di Forman, sta proprio nella riunione di amici che ne è venuta fuori. Sono tutti profondi conoscitori di Kaufman, storici collaboratori, compagni d’arte e di vita, persone che hanno provato e provano un sincero affetto nei suoi confronti. C’è l’allievo, Jim Carrey, l’unico che dopo la sua morte, nelle espressioni facciali e nei cambi di voce, nella doppia personalità di Io, me e Irene e nella tipologia di recitazione, ha saputo in qualche modo, e in maniera ben più cauta, tenere in vita qualche caratteristica di Andy Kaufman. C’è lo storico impresario George Shapiro, che appare in una piccola parte e lascia il suo personaggio a Denny De Vito, a sua volta, al tempo, co-interprete di Taxi al fianco di Kaufman insieme a Christopher Lloyd e Carol Kane che appaiono nei ruoli di loro stessi. C’è poi Bob Zmuda, che come Shapiro delega il ruolo di se stesso a Paul Giamatti, ma appare nel piccolo cameo di un gestore d’avanspettacolo, e ci sono, oltre al già citato David Letterman, Paul Shaffer e il wrestler Jerry Lawler. Tutti pronti a ricordare e omaggiare il loro amico e collaboratore, tutti pronti a riflettere ancora sulla sua arte e sulla sua importanza, tutti pronti a tenere in vita, per sempre e con la sincerità di chi sente sulla propria pelle la mancanza di una persona, l’uomo, l’artista e il suo genio.

Marco Romagna

“Man on the Moon” (1999)
118 min | Biography, Comedy, Drama | UK / Germany / Japan / USA
Regista Milos Forman
Sceneggiatori Scott Alexander, Larry Karaszewski
Attori principali Jim Carrey, Gerry Becker, Greyson Erik Pendry, Brittany Colonna
IMDb Rating 7.4

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