26 Febbraio 2021 -

MALMKROG (2020)
di Cristi Puiu

Forse è il cupo e silenzioso maggiordomo Istvan, il vero personaggio-chiave di Malmkrog. Proprio come l’enigmatico Signor Z, proiezione delle opinioni del filosofo e teologo Vladimir Solov’ëv, lo era nel suo terminale e testamentario I tre dialoghi e il racconto dell’Anticristo. Non è certo un caso che, per quanto Istvan apparentemente non sia una parte attiva delle discussioni rielaborate dall’opera dialogica di Solov’ëv che scorrono quasi ininterrotte per le 3 ore e mezza dell’ultimo straordinario (capo)lavoro di Cristi Puiu, presentato (in presenza, sic nostalgico) fra gli Encounters della Berlinale 2020 e poi sbarcato (online, sic rassegnato) fuori concorso al 32mo Trieste Film Festival, gli venga dedicato un intero capitolo forse ancora più esteso rispetto a quelli intitolati agli ospiti che deve servire. Forse addirittura, in un film dalle così evidenti ambizioni teoriche, tanto cronologico nello scorrere delle ore della (non) giornata quanto sfacciatamente ucronico nel portarla a termine come se nulla fosse accaduto anche dopo la morte, studioso della forma tanto nei pianisequenza che esasperano fino all’aperto fuoricampo impallato da una colonna lo studio degli spazi già di Sieranevada quanto nelle variazioni di ritmo che spostano gli equilibri dialogici e morali dei campi e dei controcampi, centrato sulla parola al punto che, a parte uno svenimento e un fulmineo attentato, non succede praticamente nulla, non sarebbe sbagliato vedere nel maestro di palazzo una proiezione dello stesso Cristi Puiu. L’unico personaggio che, nella polifonia di voci più e meno accordate di un’aristocrazia ottocentesca (russa, ma non solo) che ancora non si rende conto di essere sul punto di estinguersi, praticamente non parla se non per redarguire il resto della servitù. Di fatto il “regista (anche) in campo” dell’incontro, che sempre vigila e “costruisce”, silenzioso e onnipresente, perché per i padroni tutto sia perfetto, perché il servizio sia puntuale, perché “il set” in cui si muovono sia preciso e pulito. Istvan non appartiene allo stesso ceto sociale e non ha avuto le stesse possibilità di studiare degli ospiti che deve servire, e di certo con il suo lavoro non ha modo di mettersi a ribattere o a filosofeggiare con loro, agiati aristocratici ed eruditi diplomatici che hanno avuto tutto il tempo di formare le proprie posizioni personali. Eppure è (quasi) sempre lì, un passo indietro ma sempre attento e vigile, come un arbitro dell’incontro sempre pronto a intervenire servendo una portata quando pare necessario stemperare gli animi. Viene persino il dubbio che forse in lui si possa nascondere l’Anticristo, così puntuale, gentile e degno di fiducia da esserne un perfetto candidato al di sopra di ogni sospetto, tanto che sarà proprio la sua unica assenza ad aprire all’unico reale climax narrativo, quando la ricca magione immersa nella neve verrà assaltata e i protagonisti uccisi dalle pallottole. Ma, come anticipato, nemmeno questo potrà interrompere la loro dialettica, il flusso di parole nel quale perdersi, il loro toccare ogni argomento etico e metafisico per poi magari rendersi conto di non essere arrivati da nessuna parte. Anche faticando, in quel francese che in realtà non appartiene ma che l’etichetta impone di parlare, tutto riprenderà come se nulla fosse, nel proseguire imperterrito dal mattino fino alla notte, passando per il pranzo, l’ora del the e la cena di una giornata che non è un giorno, ma forse semplicemente un eterno ritorno, non certo per caso intorno al letto di un uomo che sta morendo.

«In principio era il Verbo», direbbe qualcuno. Quella parola, contrapposta e profetica, con cui Solov’ëv già nel 1899 anticipava tutti quelli che sarebbero stati i cardini e le contraddizioni nel pensiero del Secolo breve. Una serie di dialoghi ironici, polemici, densi e graffianti, concentrati sulla radicalità del Male e sulle possibili contraffazioni del Bene, in aperta contrapposizione tanto al razionalismo sempre più in voga nella filosofia europea quanto all’eccessiva passività della «fallimentare» non-violenza di Tolstoj. Una conversazione dopo l’altra, i convitati si ritrovavano a confrontarsi su guerra, Fede, cultura, filosofia, convinzioni e punti di vista, fino a rimettere in discussione perfino il comandamento “non uccidere”, per lo meno in quell’ambiente bellico dove comportarsi da aggressori è forse l’unico modo per non essere aggrediti, dove la difesa diventa più che legittima e uccidere per salvare un figlio in pericolo diventa quasi un dovere, ma dove a volte è altrettanto legittima e persino doverosa l’obiezione di coscienza di fronte a ordini evidentemente inumani e sbagliati. Un testo ben presto pronto a rivelarsi profezia, quello del teologo e pensatore russo, o forse sarebbe meglio dire una vera e propria parabola, con quella figura dell’Anticristo, uomo generoso e geniale, spiritualista ed erudito, che nella crisi della Fede, come un ineluttabile «epilogo del nostro processo storico», sarebbe stato secondo Solov’ëv ormai pronto a rivelarsi in una società sempre più desacralizzata, in cui la Storia e la Scienza sono oramai sostanziali culti sovrapposti al Cristianesimo. Puiu, nell’adattare un testo sulla carta impossibile per il grande schermo, complesso nella filosofia spirituale dei dialoghi e di fatto privo di narrazione, pone sin da subito qualche minimo e indispensabile cambiamento, spostando l’ambientazione nella magnifica villa Apafi nel villaggio di Mălâncrav (dal cui antico nome Malmkrog il titolo del film) e scegliendo un cast di tre donne e due uomini (circondati dal maggiordomo e dall’intera servitù che ha in cura il malato conte padrone di casa) in luogo del Generale, del Politico, del Principe, della Nobildonna e del signor Z che furono di Solov’ëv. Almeno uno di loro è effettivamente un diplomatico, mentre il Generale apparirà silenzioso nell’incipit, ma sarà richiamato dai suoi doveri militari a Tolone prima di poter partecipare alle conversazioni e lascerà ospite nella villa solo la propria moglie. Non è però la loro identità o parentela quello che conta, così come importano relativamente i loro nomi, la loro reale nazionalità (chi russo, chi rumeno, chi al di fuori delle conversazioni da salotto preferisce esprimersi in tedesco) e il loro reale lavoro. Conta semmai la formazione di Ingrida, Madeleine, Olga, Nikolaj ed Eduard, illuminati ed elevati nella cultura e nel pensiero di fine Ottocento, e conta il loro conseguente punto di vista, figlio sì dell’agiatezza ma anche di lunghi studi, di pensieri viscerali, di approfondite considerazioni, di convinzioni morali che è giusto che siano e rimangano personali. Così come conta, ovviamente, il meccanismo dialogico del loro assiduo confrontarsi, che di fatto annulla proprio nella dialettica drammaturgica quasi ogni necessità di azione: basta la parola per sospendere il tempo e ogni sua percezione, per immergere in un turbinio complesso e stratificato di pensieri, per creare, apparentemente senza nulla da raccontare, un cinema straordinariamente narrativo e che diventa in qualche modo co-protagonista, o per lo meno oggetto di studio tanto quanto le multiformi speculazioni filosofiche e teologiche de I tre dialoghi e il racconto dell’Anticristo.

Nella continua interazione fra i diversi personaggi-simbolo, ognuno dotato di propri e ben precisi valori, l’arte oratoria spinge quasi da sola le loro differenti visioni del mondo a mettersi a confronto, fra divergenze e convergenze, fra qualche frizione e anche qualche intelligente cambio di idea, perché è solo grazie alla dialettica che è possibile un riallineamento delle opinioni, è solo grazie alla razionalità che si possono superare le bidimensionalità anche dei punti di partenza più granitici. Puiu, nel portare su schermo il loro discorrere, infinito nel cambiare argomento perdendosi e sempre ritornando al punto (immobile) di partenza, si interroga sulle forme cinematografiche, concentrando l’unica azione (e quindi “la trama”) in pochi secondi al centro del film – del resto, anche lo splendido Aurora nient’altro era che la dilatazione massima di una breve sequenza di omicidi fuori o appena ai margini del campo – e sviluppando prima e dopo ore e ore di dialoghi. Un ennesimo “saggio collettivo di recitazione e regia”, tanto per citare il cinema di Cassavetes al quale Puiu da sempre guarda ammirato, che prima intreccia lunghi pianisequenza a esplorare avanti e indietro le stanze della villa e le porte aperte o chiuse, e poi alterna uno stringere sempre più asfissiante di campi e controcampi, che caricano e scaricano le tensioni sui volti e sulle opinioni che si scontrano, con altri pianisequenza fissi che più discretamente si allontanano dalla (non) azione, la incorniciano fra le colonne e gli arazzi della lussuosa magione, come a lasciare gli attori liberi di perdersi nei loro fiumi di parole. Sembra quasi che l’autore rumeno anticipi linguisticamente anche qualcosa del carattere dei loro personaggi, nei differenti stili dei capitoli a loro dedicati: chi fisso e granitico, chi sempre fermo ma più circospetto, e chi invece più rapido, mobile e malleabile negli sguardi e nei principi. Mentre il tempo, ineluttabile, ritorna sempre diverso ma sempre uguale nelle convenzioni, e nemmeno le due uniche e rapide incursioni (prima le pecore e poi gli uomini: forse la stessa cosa) verso quell’esterno innevato e misterioso della steppa che circonda la magione lo potranno fermare – tanto che la macchina da presa nemmeno si muoverà dal portico, limitandosi a seguire dalla villa la breve passeggiata degli ospiti nella bianca coltre del giardino. Non potrà fermarlo lo svenimento di Olga alla fine del primo atto, non potrà fermarlo un grammofono che echeggia minaccioso da chissà dove, non potrà fermarlo il campanellino per richiamare la servitù che per l’unica volta suona a vuoto. Nemmeno l’apparente irrompere della realtà con qualcuno che non dovrebbe essere in quel corridoio potrà fermare il tempo, nemmeno la vitalità fuori controllo di una bambina, e per quanto almeno per un istante dia l’illusione di poter fare saltare lo schema non potrà fermarlo nemmeno la morte. Come se tutto fosse in realtà già morto e cristallizzato nel passato, e quindi smontabile e riproducibile in un qualsiasi ordine senza che cambi nulla. Come se ogni giorno fosse destinato a tornare uguale, privato del suo senso cronologico come un eterno loop che interseca diverse giornate in un’apparente unità inscalfibile, e che invece fra le sue dilatazioni rivelerà proprio nella fulminea rapidità di uno sparo la sua natura illusoria e fallace, e quindi in qualche modo la sua eternità, il suo soverchiare i tempi terreni e mortali, e al contempo l’inutilità di discorsi e convinzioni nate già obsolete eppure portate avanti nonostante tutto, sempre pronte a riprendere nelle medesime modalità da chissà quanto tempo già defunte. Nel consueto immobilismo, magari di spalle, di chi ascolta ma sfacciatamente impalla l’oratore, a sua volta non necessariamente in campo. Del resto è una lenta agonia anche quella del Conte malato e paralizzato nel chiuso della sua stanza fra il chiacchiericcio degli ospiti, separato da una porta rigorosamente sbarrata per non turbarli con il suo malessere. Forse è proprio l’impersonificazione di quell’alta società e di quei tempi, il tramonto delle loro ultime propaggini. Un uomo oramai fuori dai discorsi e ai margini del campo, invalido e ben lontano dall’indipendenza di un tempo, da prendere di peso, lavare e rimettere a letto mentre i suoi ospiti ancora si illudono, e parlano al futuro di un mondo e di una spiritualità che insieme a lui stanno svanendo.

In fondo, al di là delle cronologie diacroniche e delle dilatazioni verbali che Cristi Puiu, da autore sempre più imprescindibile quale è, genialmente trasforma in pura teoria cinematografica, quello dei personaggi destinati a morire e rivivere in scena nient’altro è un ultimo brillare, che dopo l’attentato solo il cinema potrà simbolicamente trascinare ancora avanti fino al (necessario) non-finale. Russi che si sentono molto più vicini alla cultura europea «di Shakespeare e di Lord Byron» che non a quella asiatica a cui gli europei nella Storia sempre li hanno relegati, e che si interrogano su Dio e sulla profonda differenza fra la gioia della comunione e la paura della dannazione, sul bene e sul male, sui vizi e sulle virtù, sulla guerra e sul «progresso», sull’ossessiva ricerca della verità e sulla morte, e ancora sul rapporto fra educazione e igiene, magari scandalizzandosi, senza minimamente rendersi conto del proprio razzismo, del fatto che i «selvaggi africani» potessero volere l’indipendenza dalla «civile» Olanda coloniale. Ognuno svela la propria etica e la propria visione, e nessuno ha necessariamente ragione o necessariamente torto: si discute, ci si confronta, si aggiungono tasselli alla dialettica e al pensiero. I disaccordi diventano una contrapposizione fra Dio e le arti, fra Dio e la scienza, fra Dio e la cultura, fino alla lettura delle Parabole (da Luca, il Vangelo «più dettagliato», anche se il più citato a memoria rimane l'”apocalittico” e più letterario Giovanni) per esprimere ancora meglio le proprie opinioni. Cercando l’essenza della spiritualità e delle scritture, e magari tentando, nel trincerarsi dietro alle parole degli evangelisti, di negare il Male salvo poi rendersi conto che senza non potrebbe esistere il Bene. La stessa missione di Cristo, sulla cui esistenza tutti partono concordi e senza dubbi, sarebbe stata altrimenti una contraddizione senza un Male da redimere. Come nel dialogo si rivelano essere contraddizioni divergenti la ragione e la coscienza, sempre più separate, differenziate, quasi opposte. E pure il Bene può essere ambiguo, quando imposto agli altri e non fatto in prima persona: chiedere a qualcuno di sacrificarsi per sé fa passare da martire a carnefice, a prescindere dalla nobiltà dei motivi che stanno dietro alla richiesta. Ma intanto, nel lusso della dacia immersa nella neve, sono passate le ore e si è fatta sera, il tempo nel quale la musica extradiegetica si può fondere con il (quasi) diegetico di un piano del quale si vede la coda, ma non chi sta suonando. È d’obbligo un momento di silenzio e di ascolto, ma la conversazione non può fermarsi. Procederà ancora subito dopo gli applausi, ancora una volta spiata in quegli ultimi minimi aggiustamenti dell’inquadratura che poi forse nient’altro sono che il trasalire e il vacillare di tutti i commensali quando si parla di quell’ignoto che fa paura. Perché «L’Anticristo è ovunque, anche nella nebbia». Ma nessuno sa dove, né come riconoscerne le possibili manifestazioni. Tanto che, a giudicare dal presente, nemmeno le guerre e i totalitarismi del più e meno recente passato sembrano averne esaurito il fascino, il carisma o l’agghiacciante capacità di fare proseliti. Fantasmi che si aggirano fra i già-morti di Malmkrog, sotto la stessa coltre di neve, in quello stesso eterno giorno che forse non potrà mai finire proprio perché era già finito prima ancora di iniziare.

Marco Romagna

“Manor House” (2020)
201 min | Drama, History | Romania / Serbia / Switzerland / Sweden / Bosnia and Herzegovina / Republic of North Macedonia
Regista Cristi Puiu
Sceneggiatori Cristi Puiu (screenplay), Vladimir Solovyov (book)
Attori principali Edith Alibec, Vitalie Bichir, Agathe Bosch, Ugo Broussot
IMDb Rating 5.9

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