Nel disparato universo del cinema di Leo McCarey, Make Way For Tomorrow si mostra non tanto come spartiacque ma come un vero e proprio condensatore di poetiche, stili e registri. Perché Cupo tramonto, questo il suo titolo italiano, è un film che più di altri mostra l’incarnazione stessa dei caratteri ontologici del cinema – come sottolineato da Sergio M. Grmek Germani nello splendido articolo con cui presentava questa retrospettiva locarnese come evento cinematografico dell’anno – nel rapporto fondamentale tra campo e fuoricampo, declinato in tutte le sfaccettature possibile di corpi nello spazio e nell’apparente sensualità come flagranza di debolezze e desideri. Una decomposizione di piani sempre più stretti disegnano mirabilmente la parabola discendente di una coppia d’anziani, costretta a separarsi a causa di problemi economici. Tra Ozu e Lean, tra la commedia ed il melodramma, tra la vita e la morte. Ed ecco il cinema, appunto, nella progressiva e inesorabile provvisorietà dell’esistere, dell’amarsi e del sentirsi amati. Nel loro soggiorno, separato, a casa dei figli, si scontrano generazioni e bisogni; è l’America a cambiare, quella di una prosperità sfiorata e corrotta nei desideri che mutano e si contorcono, nell’incomunicabilità di chi ha attraversato le epoche al cospetto di coloro che respirano di un eterno presente. Dunque la soluzione non può che essere quella di un’altra distanza (e un’altra mancanza), lei in casa di riposo e lui in California. Prima di quello che potrebbe essere l’addio definitivo (sempre che a un vero amore si possa concedere una fine), si incontreranno ancora a New York, per poche ore che tendono all’infinito. Una seconda luna di miele, rivissuta quasi allo specchio, di straordinaria dolcezza e unica leggerezza. Il senso di noi, del nostro stare qui come individui singoli, ma motori di una forza che non ci è dato conoscere.
Ispirato da un romanzo e da un’opera teatrale di Josephine Lawrence, il ritratto che si consuma di fronte alla macchina da presa di McCarey ha l’aspetto di qualcosa che ben conosciamo, del decadimento di corpi e anime che assumano continuamente l’aspetto di metafora della Depressione. Ma ciò che appare si nasconde tra i registri, ed emerge con eguali forza e dolcezza. Basta una telefonata, mentre lei divertiva gli allievi della figlia in un corso di bridge, a disegnare emozioni opposte negli spettatori. Basta l’amico di lui che legge una lettera alla moglie per far emergere il sentimento celato, quasi nascosto e soffocato tra le pieghe di un tempo diverso, personalissimo e già andato in frantumi. In questo il lavoro di McCarey raggiunge una profondità impossibile da filmare oggi, qualcosa che sfugge alla contemporaneità e che rifiuta sistematicamente l’aridità di una società che per sopravvivere spesso nega la sua umanità. Prova ne è il venditore d’auto che si mimetizza da chaffeur, donando agli ama(n)ti un’ultima corsa tra le luci della città. Un ultimo giro di valzer, un bacio accennato ed evitato da un tenerissimo sguardo in macchina che segna ancora una demarcazione fisica tra ciò che è in campo e ciò che resta fuori. Tra passato e futuro, quasi evitando un presente così effimero e non necessario; un qualcosa di espresso nella dicotomia apparente fra i due titoli, il “tomorrow” che non coincide con il “tramonto” ma che è il suo naturale sviluppo, necessario perché il ribaltamento della seconda notte di nozze diventi continua e parallela evocazione della prima. I gesti e i volti, i ricordi e i respiri: loro, che ci invitano a pensare che ogni notte può esser l’ultima possibile, e di conseguenza ogni alba è la prima.
Sempre racchiuso nello stilema (quanto mai riduttivo) di caposaldo del melodramma hollywoodiano classico e mai percepito come opera cardine sulle relazioni umane e generazionali attraverso contingenze pubbliche e private, Cupo tramonto è un film quasi mai considerato nella sua necessaria limpidezza. Forse oggi ha senso guardare McCarey come antropologo ed esploratore di ciò che uomini e donne sono nell’intento di provare, e il suo sguardo coincide con il nostro nel sentire la pulsione di un atto mancato o consumato, e le sfumature della vita che ci mostrano quanto un momento sia sempre provvisoriamente spensierato o sadico ma sempre possibilmente vario, mutabile nello spettro dell’attimo che si perde. E la mente corre ancora una volta a Liberty, uno dei vertici della produzione di McCarey con la coppia Laurel-Hardy, e alla loro lotta per la sopravvivenza all’interno di un reticolato di tubi e cemento che segnano la nascita di una nuova America. La loro lotta, quel loro istinto a noi sempre veicolo di risate e divertimento, è forse l’equilibrio precario dove si muove il cinema, dove le sue figure nel paesaggio del fotogramma lottano per appartenersi e lasciarsi appartenere da chi le guarda (anche nel secolo successivo, quello che oramai con il cinema ha probabilmente ben poco a che fare). E così loro, i protagonisti di questo tramonto terribilmente umano che ci insegna a vivere l’attimo e allo stesso modo oltrepassarlo, mostrandoci ciò che davvero travalica le epoche e ci rende miseri spettatori di uno spettacolo più grande di quello che noi stessi siamo abituati a pensare. Nulla è irreparabile, insostenibile e irreversibile, perché l’animo umano non conosce vecchiaia se ancora riesce ad amare. Non lo è per i coniugi Cooper (Beulah Biondi e Victor Moore), non lo è stato per lo stesso McCarey costretto a lasciare la Paramount dopo questo fiasco al botteghino considerato dallo stesso autore come la vetta della sua filmografia, e non lo è per tutti i ragazzi che oggi lo guardano lasciando fluire le loro emozioni libere nel buio della sala. Nulla è perso per sempre, se si ha la forza di ribaltare l’ordine delle cose, di mandare all’aria la cena (ultima?) coi figli per ritrovare il tempo perduto (in un’America perduta a sua volta) e renderlo paradossalmente immortale. Ed ecco lì il cinema, apparentemente morto ed eternamente vivo nella sua aura più splendente e pulsante, in ogni piccolo gesto di Lucy e Barkley destinato alla sua piccola eternità. E siamo noi stessi a farne parte, con un misto di orgoglio, invidia e gratitudine.
Erik Negro