MAGIC LANTERN (2018), di Amir Naderi

«Heaven, I’m in heaven
And my heart beats so that I can hardly speak
And I seem to find the happiness I seek
When we’re out together dancing cheek to cheek
»
Frank Sinatra, Cheek to cheek

Basterebbe l’incipit, con la corsa del proiezionista Mitch per i corridoi in mezzo agli scaffali ricolmi della storia dei dispositivi di ripresa e riproduzione. Nell’aria risuona Cheek to cheek, archetipo musicale di un cinema dal Cappello a cilindro che non esiste più, e nel galoppare a perdifiato del giovane protagonista verso il magazzino delle pellicole 35mm, verso le pizze sistemate sulle mensole, sembra quasi di rivedere il volteggiare Ginger e Fred, la loro grazia declinata nel suo fiatone, nelle sue ossessioni, nel suo purissimo e doloroso amore. Le sue mani quasi tremano nell’innestare l’emulsione fra gli ingranaggi del proiettore, i suoi movimenti si fanno lenti e sofferti: è l’ultima bobina da mettere in macchina per l’ultima proiezione prima che la sala nella quale lavora venga digitalizzata. È l’ultimo film del mondo prima del dilagare dei file, o per lo meno è l’ultimo film del suo mondo, è la fine, è la morte di un mestiere, di un dispositivo, di un ticchettio, della matericità delle immagini. Mitch sa perfettamente di non poter rimanere indifferente, sa perfettamente quale sarà il suo coinvolgimento emotivo di doppi e amori perduti, sa perfettamente che quando sarà ora di riavvolgere la bobina al termine della proiezione sarà finita un’epoca e forse sarà finito addirittura il cinema, o forse no, perché la settima arte ha perso o quasi la fisicità della pellicola e della visione analogica, ben presto perderà probabilmente anche le sale in virtù di altre fruizioni, ma la storia della settima e più giovane arte è un qualcosa che si può ancora cambiare, un’ondata in costante divenire, un territorio di immaginario ancora e in potenza inesplorato. Il cinema sta cambiando e cambierà, si evolverà, si digitalizzerà sempre più negli occhi degli smartphone, ma anche nel dolore intimo, funereo e feticistico dell’emulsione il flusso delle immagini andrà comunque avanti, ormai inarrestabile, ineludibile, inevitabile, eterno. Si spengono le luci in sala, si accende la lampada del proiettore, per ogni secondo che passa ventiquattro fotogrammi, tenuti fermi per il tempo necessario a ogni doppio flicker dalle due croci di malta, scorrono con il loro leggero e sublime tremolio di fronte alle lenti, trafitti e restituiti dalla lama di luce. Sullo schermo, come in cabina, appare ancora Mitch, il suo doppio, la sua specularità, la sua astrazione. Il proiezionista si guarda attraverso il finestrino, si vede impiegato in un negozio di abiti vintage il cui nome Paper Moon non può che rievocare i fasti e la cinefilia di Peter Bogdanovich, e soprattutto rivede lei, bellissima e sfuggente, che prova i cappelli allo specchio e sorride, che si lascia fotografare radiosa e poi sparisce nel nulla, lasciando come unico segno della sua esistenza il cellulare sull’asfalto di fronte alla piccola bottega. Può avere un nome, può averne un altro, può avere un corpo oppure essere un fantasma, può essere un ricordo analogico o una proiezione digitale, non è la reale identità della bella e perduta ciò che importa. Conta solo l’occhio tatuato sul suo avambraccio, che poi è l’occhio della macchina da presa, quello del cinema, quello di ciò che, nella sua assenza, Mitch non può fare a meno di cercare disperatamente. Come tutti noi, sedotti e (mai davvero) abbandonati, increduli e senza fiato di fronte alla “lanterna magica” che cattura e restituisce i sogni e le emozioni.

A sette anni di distanza da Cut, l’iraniano errante Amir Naderi torna a mettere in scena morte e resurrezione del cinema, con un nuovo e straordinario omaggio questa volta diretto non più verso il Giappone in celluloide di Ozu e Kurosawa, quanto verso l’America e il suo cinema classico fra Vincente Minnelli e Orson Welles, tornando negli States dieci anni dopo Vegas, girando in inglese dopo le Dolomiti in italiano di Monte. Intriso sin dal titolo, tratto direttamente dall’autobiografia di Ingmar Bergman, in quella stessa forsennata (meta)cinefilia che quasi ogni anno porta il suo gigantesco e umanissimo autore a confondersi umilmente fra il pubblico veneziano alla spasmodica ricerca di nuove immagini e nuovi innamoramenti, Magic lantern prende quella che era la pura ossessione anche autolesionista di Cut e la declina nell’amore, nella malinconia, nella passione più bruciante nei confronti del cinema e della sua pletora di possibili formati. Non si tratta più di incassare colpi violenti sul volto, non si tratta più di salvare la propria anima dal dolore consacrandola al Dio del cinema mentre il corpo sanguina: qui il feticismo nei confronti della sala è composto dai dettagli sul proiettore al lavoro e le fossette intorno alla seducente bocca di lei, mentre a rappresentare e incarnare il cinema non c’è Dio, ma una Dea timida e raggiante, entrata all’improvviso nei desideri e nei sentimenti e altrettanto all’improvviso volatilizzata nella disperata ricerca e nei rimpianti, fino a riapparire stesa a terra sotto un lenzuolo e con lo stesso tatuaggio a identificarla sulla fotografia della pagina di nera di un vecchio giornale, e poi ancora viva e bellissima nel labirinto dei sogni di Mitch. Magic lantern coincide con schermi che entrano timidamente in altri schermi per poi sostituirsi nel full frame, con la memoria in immagini della donna/cinema che digitalizza in un iPhone la fisicità del suo corpo, con l’occhio tatuato che viene sovrapposto all’occhio di carne, e soprattutto con i metalivelli narrativi, concettuali e visivi prima del film nel film, e poi al suo interno dei video sullo schermo del cellulare di lei. Non è certo un caso che, all’interno del film in proiezione in pellicola, siano proprio le digitalissime clip dell’iPhone ritrovato e così difficile da restituire fra appuntamenti mancati e fantasmatica sfuggevolezza a permettere a Mitch di iniziare a ricostruire la storia del suo grande amore perduto, di iniziare ad avere qualche parziale risposta nella ricostruzione (impossibile) del soggetto/oggetto del proprio cinefilo innamoramento, così come non è certo un caso che Amir Naderi, nel suo sentito omaggio d’amore alla donna/cinema e nel suo dolente canto d’addio alla pellicola, abbia deciso di girare tutto, compreso il film nel film che si vede chiaramente proiettato da emulsione, in digitale e senza differenze di grana fra un livello e l’altro della meta-narrazione. Come a dire che è inevitabile la malinconia nei confronti di quel ticchettio e di quella resa morbida e materiale dell’immagine dolorosamente destinata a sparire, ma anche che, a patto di saper usare i nuovi (e meno affidabili nella conservazione) dispositivi, il futuro del cinema è ancora possibile, e ancora potenzialmente radioso. Basta non smettere mai di sognare.

Amir Naderi mette in scena un film di specchi, immagini, schermi, rifrazioni e rappresentazioni. Tutto è almeno doppio, dal protagonista che dalla cabina di proiezione si rivede al cinema alle identità del suo amore impossibile, dai metafilm che si alternano di schermo in schermo alle corse di lui e di lei nei corridoi del cinema in chiusura. Fra carne e illusione, sudore e panneggi in volo, sospiri e fantasmi, in Magic lantern c’è il melodramma, c’è il noir, c’è la commedia, c’è il testo teorico, c’è la dichiarazione d’amore mai pronunciata, c’è la ricerca matta e disperatissima di qualcuno o qualcosa, c’è il film di fantasmi, e ci sono citazioni e riferimenti assortiti che vanno da Mizoguchi a Malick, passando per George Cukor, John Huston, John Ford e la mezzaluna (necessariamente di carta) già di Méliès, Bogdanovich e Soderbergh. C’è Jaqueline Bisset, già volto (non) “americano” di Effetto Notte, come una sorta di madre del cinema che mai più è riuscita a entrare nella stanza della figlia/pellicola dal giorno della sua morte, e poi ci sono i dispositivi, dal proiettore allo smartphone passando per le Polaroid scattate dal Mitch commesso alle clienti del negozio che scoprirà in seguito essere madre e (fantasma della) figlia. E soprattutto c’è un sublime cortocircuito di luoghi, tempi e livelli, in cui la storia d’amore e di morte si ripete sempre uguale e diversa nel dolore e nei discorsi in sospeso del (meta)protagonista, e in cui gli abiti, le acconciature e le forme del cinema classico hanno in mano un iPhone dal quale guardare, senza ancora averlo capito, gli ultimi bagliori di una vita. Quella di lei, scomparsa sotto un’auto e ritrovata nella realtà come nella finzione solo nei ricordi e nei sogni, così come quella dell’ultimo rullo di pellicola dell’ultimo film nell’ultimo passaggio in macchina, ticchettio e scorrimento finale prima che i pixel sostituiscano per sempre gli ingrandimenti, prima che un hard disc sotterri forse per sempre le bobine. La consapevolezza da parte di Mitch della morte di lei, eterea e (ir)raggiungibile, sarà il momento del loro nuovo incontro nel metafilm come nella realtà del proiezionista, nel cinema come nel sogno che rappresenta. Solo la luce del proiettore può scalfire l’oscurità e illuminare l’onirico, riportando Mitch ancora una volta a lei, la donna dai mille nomi e dal sorriso ammaliante, l’amore e l’ossessione, l’intentato e il perduto, il rimpianto e la malinconia, il sentimento e la speranza nonostante tutto e tutti. Quando mancano ormai pochi giri e pochi metri alla fine della pellicola che girando si assottiglia sul piatto, il Mitch proiezionista sudato e tormentato dai suoi dolori fugge dalla cabina e corre per il mondo esterno, ritrovando gli stessi luoghi del film ormai abbandonati e polverosi, e ritrovando così non solo nell’immaginario ma anche nella vita il suo amore impossibile, l’attesa, l’aspettativa, l’illusione, la consapevolezza, il cinema e la sua fisicità. La realtà rientra nella finzione (meta)cinematografica per coincidere nello stesso sogno, quello di incontrarsi ancora una volta, magari inseguendosi e volteggiando felici per i corridoi fra le pellicole. Fino alla fine del rullo, ultimissimo fruscio e giro di walzer fra gli ingranaggi. Gli ultimi fotogrammi se ne vanno, si spegne la lampada, si accendono le luci. È tutto finito, è tutto morto, o forse è solo in un nuovo divenire. Perché ci sarà sempre uno smartphone da ritrovare ancora una volta con le sue nuove immagini da girare e da rivedere, con il suo occhio meccanico e con il suo sguardo verso il futuro, ma soprattutto con il cuore, la sincerità e la passione di chi lo saprà manovrare.

Marco Romagna