1928. Il celebre prestigiatore Stanley Crawford (Colin Firth) accompagna in Costa Azzurra l’amico e collega Howard Burkan (Simon McBurney) per aiutarlo a smascherare Sophie Baker (Emma Stone), una giovane medium le cui presunte facoltà soprannaturali sono talmente credibili da aver convinto una ricca famiglia americana a offrirle ospitalità e, a breve, finanziamento per una fondazione di ricerca. Per Crawford «svelare il trucco» dell’affascinante Sophie si rivelerà più difficile del previsto e il suo razionalismo sarà messo a dura prova, da diversi punti di vista.
Siamo dalle parti della sophisticated comedy alla Cukor (riconoscibili i riferimenti a Scandalo a Filadelfia e Nata ieri) ma Allen non riesce a eludere completamente la trappola del manierismo, e per lunghi tratti la sceneggiatura di Magic in the Moonlight ha la stessa profondità delle sue location da cartolina. Non è insomma difficile trovare i difetti al quarantacinquesimo lungometraggio del settantottenne autore di Brooklyn, a cominciare dalla scrittura spuntata che spesso riduce il protagonista, che si vorrebbe caustico e altero, ad un bolso narcisista per cui è davvero difficile provare simpatia.
Da ormai una ventina d’anni la produzione di Allen è intensa quanto discontinua, e Magic in the Moonlight non è senz’altro un episodio memorabile, pur presentando una tenuta d’insieme tutto sommato superiore ai peggiori incidenti di percorso come To Rome With Love o Vicky Cristina Barcelona. Si tratta pero’ sicuramente di un passo indietro rispetto al precedente Blue Jasmine, una riuscita variazione sul tema di Un tram che si chiama desiderio che veniva impreziosita dall’interpretazione di Cate Blanchett.
Anche in Magic in the moonlight le note più interessanti provengono dal reparto attoriale, dove Emma Stone è luminosa e naturalmente magnetica, talmente intonata ai colori estivi della pellicola da far perdonare talvolta i disorientati ammiccamenti del povero Firth.
Il ritmo pero’ è piuttosto discontinuo e la pur buona alchimia tra i due non è sufficiente a reggere per intero la struttura di un film in cui, cosa insolita per Allen, i personaggi secondari sono poco interessanti e quasi del tutto trascurati. Figure come la vecchia zia eccentrica, lo spasimante con l’ukulele e la miliardaria credulona sono abbozzate con tale approssimazione che persino l’autore sembra esserne consapevole, e infatti ne riduce il ruolo alla stretta funzionalità narrativa per tornare appena possibile a rifugiarsi nei duetti tra i due protagonisti.
Un film da buttare dunque? No, non del tutto. Il bello dei maestri come Allen è che anche nei film meno riusciti con un po’ di sforzo si trova sempre qualcosa da conservare. In questo caso bisogna andare a cercare dietro l’umorismo fuori fuoco del protagonista per trovare il conflitto drammatico tra l’ateismo materialista di Allen e la ricerca di bellezza e di senso nella vita, qui volgarizzati in «magia».
Nel corso del gioco del gatto col topo tra Stanley e Sophie ci sono un paio di scene in cui improvvisamente Firth riesce ad accordarsi alla chiave più interessante per il suo personaggio, quella della malinconia, e sul film per un attimo si apre un gioco di luci e significati molto più ricco dello stravisto tam-tam romantico tra i due protagonisti. E’ in questi momenti che ritroviamo per un attimo l’Allen de La rosa Purpurea del Cairo, che usa il cinema (qui traslato nell’illusione) un antidoto all’insostenibilità della vita reale, o quello di Annie Hall che riflette su come «tutti, in fondo, abbiamo bisogno di uova».
Stefano Piri