LA MIA VITA DA ZUCCHINA (2016), di Claude Barras
Il primo paese della co-produzione è la Svizzera, come pure sono svizzeri il regista e buona parte dei finanziatori. Ma Ma vie de Courgette è un film profondamente francese. Lo è per tematiche, per modalità narrative, per etica, per confezione tecnicamente impeccabile, per capacità di essere davvero “per tutti”. E si è già detto più volte delle vette, a discapito di un cinema live action mediamente in crisi, raggiunte negli ultimi anni dall’animazione d’oltralpe. Fra le due grandi industrie, quella statunitense – non solo il colosso Disney, ma anche la Dreamworks e un intero mondo di studi indipendenti – e quella giapponese degli anime, l’animazione transalpina ha trovato una terza via, un’alternativa credibile, una nuova ondata di studi e animatori perfettamente compiuta e che non assomiglia in alcun modo, né per tematiche né per realizzazione, alle due “linee guida” mondiali. Abbiamo già cantato le lodi del duo Alain Gagnol e Jean-Loup Felicioli, che con Un gatto a Parigi e ancor più con il nuovo Phantom Boy hanno trovato un tratto cubista e un cinema per tutti, leggibile a più livelli, capace di intrattenere i bambini strizzando però l’occhio allo spettatore adulto con istanti ancestrali, riferimenti cinematografici o sporadici doppi sensi. Ma potremmo citare come mirabili esempi di animazione transalpina, a dimostrazione di una scuola floridissima, anche il Remy Chayé di Tout en haut du monde, oppure il buonissimo Avril et le monde truqué del duo Desmares-Ekinci, entrambi presentati e lungamente applauditi al recentissimo Future Film Festival di Bologna. Quella francese, al pari di quella americana e di quella nipponica, è un’animazione che si avvale delle tecniche più disparate, da quella tradizionale ad acetato e china fino agli attori in carne ed ossa catturati con il rotoscopio, dalla futuristica computer grafica al tradizionalissimo passo uno. E proprio del passo uno, quelle 24 fotografie al secondo scattate – al pari del recente Charlie Kaufman di Anomalisa, ma anche dei modellini di automobili di Fritz Lang in Metropolis (1927) – animando a mano i personaggi fotogramma per fotogramma, si è avvalso lo svizzero di nascita, ma francesissimo per formazione (ha studiato a Lione) e idea di cinema animato, Claude Barras per confezionare l’ottimo Ma vie de Courgette, distribuito in Italia con la traduzione letterale La mia vita da Zucchina, presentato in pompa magna a Cannes alla Quinzaine des Réalisateurs. Una co-produzione franco-svizzera, si diceva, animata allo Studio Rhône-Alpes di Lione utilizzando una Canon Eos 5D Mark III, un lavoro di pazienza, un lavoro certosino, una nuova tappa fondamentale dell’animazione d’oltralpe.
Barras, con Céline Sciamma (già regista di Tomboy e Diamante Nero) ad affiancarlo alla sceneggiatura, anima in stop motion pupazzi in plastilina che sanno essere molto più espressivi e sinceri di qualsiasi attore in carne ed ossa, per mettere in scena una lettura sognante e grondante umanità dell’infanzia e della drammatica situazione delle casa-famiglia per i bambini orfani o con genitori violenti, tossicodipendenti, psichiatrici, incarcerati o espulsi dal Paese. Courgette è un soprannome affettuoso dato dalla madre, forse ridicolo – “Sembri piuttosto una patata”, gli dicono i compagni di av(s)ventura -, ma quando sei orfano a nove anni te lo tieni stretto come un sogno, come un legame, come una fotografia. Come un aquilone, prima al petto e poi pronto a volare nel cielo. Quella messa in scena è una tragedia che diventa poesia, è l’iniziale bullismo che diventa amicizia, è un’amicizia più grande che diventa paternità, è un poliziotto dal cuore d’oro e la sana ironia fanciullesca nel bersagliarlo dalla finestra soprastante di bombe d’acqua. Ma è anche l’arrivo in orfanotrofio di Camille, il padre omicida-suicida alle spalle e i grandi occhi azzurri, che diventa per Courgette la pura innocenza del primo amore. Barras costruisce un intero mondo ad altezza bambino, un immaginario fatto di tenerezza e avventura (si veda il piano per non far ottenere la custodia alla zia avida, oppure la fuga nella borsa), fatto di vacanze sulla neve e cene insieme, fatto di piccole gelosie e lacrime di felicità, fatto di ricordi e risate. Un dolce viaggio in una realtà amara da cui traspare l’unicità della vita, che al contempo si rivolge anche a un pubblico più grande parlando apertamente, e anche con durezza, senza vincoli né retorica, di situazioni disperate, di assistenti sociali, di genitori violenti, di risse fra giovanissimi, di bullismo, di affidi chiesti per meri interessi economici. Di affetto, in tutte le sue declinazioni. Senza dimenticare di inserire, a uso e consumo pressoché esclusivo degli adulti, qualche divertente doppio senso (nulla di scabroso) sessuale, dalle “pollastrelle che piacevano tanto a papà”, con tanto splendida gallina disegnata sul retro dell’aquilone, al momento della gravidanza della coppia – eroica – che gestisce la casa-famiglia, “per colpa del pisellino di lui, pronto a esplodere”. Con la stessa grazia con cui i già citati Gagnol-Felicioli, in Phantom Boy, hanno saputo affrontare la malattia senza cadere in inutili birignao, e anzi rendendo la tragedia l’occasione magica per far partire l’avventura, così pure Claude Barras affronta la tragedia con l’ironia, la lacrima con il sorriso, la mancanza con l’amore. Senza retorica, senza cadere nelle lacrime tirate via a forza allo spettatore, solo con tanto cuore, tanta sincerità, tanto amore. Quello della mano di Courgette che lentamente si avvicina a quella di lei mentre dorme, la sfiora, la prende sotto la protezione; quello sguardo dell’amata quando gli dirà, tempo dopo, che quella volta non stava dormendo. Negli occhi in plastilina si può nascondere il più profondo sentimento, e Ma vie de Courgette è un film ostinatamente toccante, una mano tesa verso l’infanzia, il sogno di una vita normale e migliore. Una perla da 66 minuti, elegante, divertente, arguta, raffinata, a tratti dolce e a tratti amara, ma sempre sfacciatamente tenera. Imperdibile.
Marco Romagna