La regista ebrea francese Yolande Zauberman ha scoperto l’attore israeliano Menahem Lang in un film di Amos Gitai, Kedma (2002). Ma poi, conoscendolo meglio, è entrata in una realtà imprevista: M, con un titolo legato sia all’iniziale del nome del protagonista sia al celebre ‘mostro di Dusseldorf’ che dà il titolo a uno dei capolavori di un altro più celebre Lang, è il racconto semi improvvisato di questa realtà. Quando Menahem comincia a parlare all’inizio del film, dopo una breve ma intensa canzone religiosa che già mette in chiaro le sue grandi capacità in campo di canti liturgici, introduce subito le tematiche base della sua esperienza nel mondo ebraico, per la precisione nel mondo israeliano, poco a est di Tel Aviv, nella città di Bnei Brak dove c’è una densissima popolazione appartenente a una delle suddivisioni più ortodosse ed estreme dell’Ebraismo, gli Haredi. Qui, durante la propria formazione religiosa, a 7 anni (o forse a 4) Menahem è entrato in un circolo vizioso durato per anni e anni, in cui molteplici volte ha dovuto subire violenza da parte di tre rabbini diversi. C’è chi l’ha solo violentato, c’è chi l’ha portato a scappare e c’è chi invece ha avuto una presa tale sul povero ragazzo da farlo diventare una specie di schiavo sessuale o amante. Quest’ultimo è l’unico dei tre che Menahem è riuscito a incontrare in un momento successivo alla molestia, precisamente 10 anni prima dell’inizio della lavorazione del film: in questa occasione ho avuto modo di registrare con una telecamera nascosta una conversazione col rabbino mentre si confessava, video che è poi andato sulla televisione israeliana creando grande scandalo e ovvi problemi legali. La Zauberman decide di seguire documentaristicamente le avventure di Menahem, che si è rasato a zero per separarsi dal mondo religioso col quale tuttavia vuole ancora trovare una pace, e lo fa con riprese di diverso tipo ma sempre realmente amatoriali, perché sempre quello che accade sullo schermo o quello che è montato all’interno del film è qualcosa di avvenuto naturalmente nel semplice atto del filmarsi. Nato come, teoricamente, il diario di una vendetta personale, poiché inizialmente lo scopo di Menahem era quello di rintracciare i propri stupratori, M è poi diventato il racconto di un’esorcizzazione intima di un mondo chiuso. Lo sguardo infantile dell’eterno traumatizzato Menahem finisce per diventare la porta con la quale la Zauberman può imparare, capire e migliorare attraverso il dialogo e il reportage una situazione eticamente critica e complessa.
Nella sua durata di poco più di un’ora e mezza, il film è forse sovraccarico, ma allo stesso tempo non ci sentiamo di considerarlo un difetto: nella raccolta di riprese collezionate dalla Zauberman, che coprendo più anni potrebbero ammontare a un minutaggio paragonabile a quello dei progetti di Wiseman, sono selezionati principalmente i dialoghi che delineano il percorso di Menahem, senza informazioni di troppo. Veniamo anzi parzialmente privati di dati perché non siamo resi partecipi del viaggio del protagonista all’interno di se stesso, nel momento in cui la sua smette di essere un’odissea alla ricerca dei colpevoli del proprio dolore bensì si tramuta in una sorta di viaggio iniziatico per gli altri, nel tentativo di aprire la società in cui abita alla consapevolezza della propria essenza. Andando a giro per Bnei Brak, Menahem e la Zauberman incontrano e filmano due persone, un rabbino che è stato stuprato da piccolo e ha stuprato a sua volta un bambino e un diciannovenne che sta per sposarsi e non ha mai fatto sesso nella sua vita, esclusa una violenza subita nel sonno dal fratellastro. Mediante il primo, regista e personaggio capiscono i veri pericoli e la vera natura sociale e cosmica di questo piccolo caos culturale, notando negli occhi e nel corpo del rabbino una degradazione; l’uomo, che ha confrontato i genitori del bambino appena si è reso conto di quello che ha fatto e che è finito in prigione per aver fisicamente urtato i rabbini che l’hanno violentato, spiega che tutto in questa logica è un circolo vizioso, e che all’interno della cultura ebraica la forza e l’importanza della tradizione sono inconsciamente inculcati nell’educazione al punto da creare un loop di deviazioni sessuali. Menahem stesso concorda nel momento in cui realizza che ciò potrebbe essere la chiave dietro il suo divorzio e dietro la sua forte attrazione per i transessuali, riguardo alla quale si confronta con la vincitrice di Miss Trans Israel. Alla ricerca della propria identità, e facendosi strada tra i propri compagni di sventure usando le proprie accattivanti capacità di cantante e attore, Menahem non prova a capire la sua sessualità bensì ne accetta l’evoluzione, fino a comprendere presumibilmente tramite i suoi incontri che la pedofilia che si diffonde così è più una malattia dei singoli individui da curare con la coscienza (o con la preghiera…) che una malattia della società. Ma tutto ciò non viene detto a parole nel film, e viene solo elegantemente implicato dalle immagini e dallo spostamento del fuoco da parte della Zauberman dai bisogni violenti di Menahem alla sua ricerca costante di confronto.
Menahem si incontra anche con la famiglia, scopre di non essere l’unico tra i suoi fratelli ad aver subìto molestie e dopo averlo saputo dal padre, più conservatore tra i conservatori, capisce che questi ha difeso con i denti il fratello ma non lui. Qua la Zauberman, dopo aver quasi pornograficamente ritratto il vero dolore di una famiglia, decide di staccare lo sguardo, di smettere di mettere in scena il dolore e di creare un’ellissi, che può implicare tutto, da un’ennesimo abbandono affettivo fino alla riconciliazione che Menahem aspetta da sempre. Non c’è la necessità di mostrarlo perché la Zauberman capisce che la cosa più importante è carpire e capire il dolore piuttosto che penetrarvi; l’intimismo della ricerca della regista si blocca di fronte ai fatti e continua, imperterrita, a raccontare una storia che si fa via via più tristemente universale. Ogni volta che in scena c’è un rito ebraico, la regista mostra i balli con uno sguardo quasi etnografico, ma poi si concentra, singolarmente, sui partecipanti ai riti, soprattutto i bambini. Cosa possono nascondere quegli occhi? Il fuori campo, come nel dialogo col padre, è la cosa che, non essendo importante all’interno del film, diviene importante al suo esterno, nel reale. Menahem può essersi riconciliato col padre, ma non è una cosa che interessa a M, è una cosa che interessa a loro; ugualmente, i bambini, tra quelli inquadrati, a essere stati vittime di violenze, devono poter confrontare i demoni del loro passato, presente e futuro all’interno delle proprie vite. In questo senso M può fungere al massimo come viaggio iniziatico per far comprendere loro i pericoli e le problematiche con cui si possono confrontare, e ciò soprattutto tramite la storia del diciannovenne, che, non facendosi mai inquadrare in faccia, dimostra in pochi mesi come il matrimonio è andato in sfacelo a causa dell’immersione del suo microcosmo nella coscienza dei suoi traumi. Del resto, e lo dice la Zauberman a fine film, M è un film-coltello, una protesta verso una realtà; non verso i singoli individui, ma verso la situazione che si è creata.
Nicola Settis