L’UOMO LEOPARDO (1943), di Jacques Tourneur
Dopo aver esordito da ragazzo come assistente del padre, ed aver girato quattro film in Francia, Jacques Tourneur sbarca negli Stati Uniti. Avrebbe molto senso, proprio da qui, definirlo apolide non tanto per il suo esilio americano ma sopratutto per quello che concerne la sua carriera di autore, poliedrica e polimorfa, sostanzialmente unica. Dopo esser stato reclutato dalla MGM a far gavetta con una serie di splendidi cortometraggi (fondamentali per rendersi conto della sua evoluzione, e del suo stile che rappresenta un quasi inarrivabile lirismo essenziale) sarà il sodalizio con l’RKO a cambiare decisamente le carte in tavola. Siamo nel 1942 quando Tourneur incontra Val Lewton per realizzare una trilogia di capolavori che segneranno, e convolgeranno, per sempre la storia del cinema fantastico (quando l’horror, sostanzialmente, non esisteva ancora, se non contiamo i capolavori dell’horror muto, totalmente distanti stilisticamente dal resto della storia del genere): dopo Il bacio della pantera (1942) e Ho camminato con uno zombie (1943) arriverà questo The Leopard Man, probabilmente il più complesso dei tre, o meglio quello che ne risolve le tematiche e le ossessioni al massimo delle possibilità. Un film pieno di contrasti, dal bianco e nero più che mai esposti, alla luce come alle ombre che da quella gamma tonale nascono proprio per esaltare il mistero. The Leopard Man respira l’aria della notte, esercita l’avventura del soprannaturale, interroga (anzi esige l’ignoto) per poter vivere. Così come il film è il mostro, il suo abitante e protagonista, che vive all’ombra continua dell’animale per perpetuare il suo incubo sulla realtà. Alla ricerca continua di ciò che non può essere visibile, del germe di una paura ancestrale che rappresenta la mancanza di qualsiasi possibile certezza; se non quella del cinema, proprio come atto di fede di fronte a ciò che non possiamo osservare. E quale può essere la prima e più semplice nostra paura se non quella del buio? Un’assenza di luce, un’assenza di cinema e di cose da vedere? A questo punto rimangono, appunto, il non-conosciuto e con esso il non-conoscibile, in un intrigo tra noir e horror che mettendo in scena un antagonista/serial-killer, uno dei primi di una tradizione cinematografica che poi ci avrebbe regalato, tra gli altri, Psycho (1960) di Hitchcock, tanto animalesco da potersi confondere con l’animale di per sé: un leopardo che è un’apparente entità corporale o naturalistica, rappresentante, sin dal proprio pelo nero, la vera e propria essenza dell’oscurità e della paura, ma che si manifesta spesso più attraverso il movimento che attraverso la vera e propria manifestazione fisica, oppure attraverso gli occhi che lampeggiano in mezzo al nero, a un sincero spavento che ancora colpisce e sorprende.
Il felino è quasi un pretesto, che funge per spostare l’attenzione dal corpo all’incorporeità che traspare attraverso il timore. La trama minacciosa è strutturata attraverso una serie di intrighi e indagini che si concludono con l’osmosi definitiva tra uomo e bestia, tra morte e esplosione post-mortifera; in particolare, in mezzo alla storia si susseguono tre macrosequenze che compongono lunghi e silenziosi crescendo emotivi di tensione. La paura del buio in mezzo al buio più totale per una giovane, la paura della morte e della claustrofobia nel chiuso e angosciante spazio di un cimitero, e poi il desiderio per l’arrivo di un uomo, che si tramuta in paura quando quell’uomo non arriva – o, almeno, non l’uomo che ci si poteva aspettare. Sgorga il sangue e con esso le tenebre circondano i personaggi, in un gioco continuo tra carnefice e vittima, con lo spettatore che si deve immergere in un gioco di cui egli stesso è il protagonista, con la propria immaginazione. Una ballerina provoca la sua rivale portando nel bar in cui lavorano un leopardo nero, sfoderando tanto eleganza quanto incapacità di mantenerlo tranquillo; la rivale spaventa il leopardo, che scappa e si libera nella città. È qui che comincia un incubo in cui ci si innamora delle ombre, in un contesto che si presta a ogni metamorfosi del caso, finendo per essere nel contempo straziante e semi comico. È anche probabilmente un film più crudele de Il bacio della pantera, si osa di più sia narrativamente sia visivamente, in una specie di complessa congiunzione culturale franco-americana in cui la fascinazione nei confronti dell’illuminazione degli spazi è legata tendenzialmente all’uso della fotografia nei film del realismo poetico francese (uno su tutti: Alba Tragica (1939) di Marcel Carné) mentre il comparto morale e stilistico si basa più che altro sulla ricerca di un nuovo genere e dunque di una sua genesi, un neo-horror “all’americana” che ha già i prototipi delle tinte noir che avrebbero assunto alcuni tra i film della maturità anni ’50 di Orson Welles. L’ambientazione urbana è pronta a svelare il proprio lato più fragile oppure quello più minaccioso, tra i rumori del vento e dei rami degli alberi, che si spostano di notte, nel mistero – ma anch’essa può essere interrotta e sostituita dal macabro, in una processione funeraria conclusiva che ha la stessa programmatica lentezza ritmica inquietante e chiusa di un’ipotetica messa nera. I corpi si spostano in avanti, senza rivelare il volto, in un deserto che appare dal nulla, come in un sogno, o in un mondo-altro che svela definitivamente la visione mostruosa, l’allucinazione che unisce la nostra crudeltà con quella di mondi che non possiamo conoscere, e che siamo destinati forse a non dimenticare, tra le vene in 35mm di questa riscoperta dell’assurdo. Uno sparo, un omicidio, un’incarcerazione, e poi la conclusione: un promemoria di necessità di ricongiunzione, contatto umano e fisico, amore o forse anche sessualità, una pulsione che si allontana dal corpo e va verso un tentativo di appagamento dell’anima, per superare il terrore e l’orrore e per ricominciare qualcosa, all’interno di un meccanismo che tendenzialmente unisce l’orrore alla misantropia. La direzione dev’essere il corpo dell’altro, e il ricordo, e magari anche addirittura la potenza della luce del cinema che irrompe anche nella più pesta delle notti.
Erik Negro, Nicola Settis