LUMINA (2021), di Samuele Sestieri
«Lonely, I’m Mr. Lonely
I have nobody for my own
Now I am so lonely, I’m Mr. Lonely
Wish I had someone to call on the phone»Bobby Vinton, Gene Allan – Mr. Lonely, 1962
Non è più necessario filmare il quieto addormentarsi di una bambina cullata dal seggiolino dell’auto fra le curve della Finlandia. E non serve nemmeno più il materializzarsi del suo sogno, in cui un monaco meccanico e un divertente omino rosso, fra impeti di tenerezza, bambole di pezza e buffi dialoghi in una lingua inventata, finivano ne I racconti dell’Orso per insegnarle il valore più onesto e disinteressato dell’amicizia. Per tornare a lambire la fiaba, esplorando questa volta quelle forme orrorifiche che dal folklore più antico alla Biancaneve disneyana ne sono sempre state parte integrante e fondamentale, all’immaginario cinematografico di Samuele Sestieri è ormai più che sufficiente un personaggio femminile che si risveglia su una spiaggia senza vestiti e senza nome, sola, priva di memoria e di identità. Una figura silenziosa e disorientata che incarna sin da subito la perdita e la necessità di riappropriazione, e che fra nebulose dissolvenze, rumori sinistri e lente carrellate di vertigini lynchiane si trascinerà fino a impantanarsi per gli strabilianti paesaggi in rovina del materano. Capace per una forza misteriosa di riattivare i dispositivi elettronici, ha un’intera vita da ritrovare attraverso i luoghi e gli oggetti, attraverso il sapore delle more e l’inaspettata puntura delle loro spine, ma soprattutto attraverso il passato analogico e digitale delle immagini, fra un vecchio album di foto di famiglia ormai ingiallite e il display di uno smartphone con cui specchiarsi nel proprio doppio e lentamente (ri)scoprirsi. Un po’ come se Lumina, profondamente differente per genesi, ambizioni e messinscena eppure coerentissimo con il lavoro precedente, fosse ben al di là delle sue sequenze esplicitamente oniriche la prosecuzione in altre forme e altra età dello stesso unico e grande sogno, una nuova pennellata di educazione sentimentale sulla purezza della tela di quella stessa bambina che qualche anno fa, nella cornice narrativa del primo film, si appisolava in auto. Una bambina – che poi a ben vedere nient’altro è che il cinema secondo Samuele, la sua già ben riconoscibile autorialità ipercinefila e umanissima fiabescamente sospesa fra il post-apocalittico e il fantastico – che nel frattempo è cresciuta e divenuta ormai grande, e per la quale dopo l’amicizia è definitivamente giunta l’ora di scoprire l’amore. Non solo quello di finzione fra Leo e Arianna che, fra gioie, dolori, crisi, allontanamenti e sessualità, emergerà dalla memoria in silicio dello smartphone, ma quello vero e radicato, percepibile e palpabile, che deflagra strabordando potente da ogni inquadratura, da ogni sguardo e da ogni singolo istante di Lumina, e che costituisce forse la principale forza di un’opera seconda (o se si vuole del primo lungometraggio in solitaria, dopo l’esordio in co-regia con Olmo Amato) che Samuele ha letteralmente cucito sulla compagna e musa Carlotta Velda Mei, fatta con lei e per lei con lo stesso sincero ed evidente trasporto che Michelangelo Antonioni riservava a Monica Vitti. Un amore sincero e purissimo, totale, romantico, quotidiano, che riemerge intatto sullo schermo in ogni primo piano e in ogni attesa della macchina da presa, in ogni raccordo di montaggio e in ogni più impercettibile gesto. Nel volto di Carlotta che si specchia timido nel senso orario del vinile, e poi nel roboante risuonare delle note di Mr. Lonely, il senso del film in poche frasi e il primo bacio per chissà quante generazioni.
Del resto Lumina è per molti versi un film “di famiglia”. Non solo per la coppia che rispettivamente lo dirige e lo interpreta, e non solo (ma questo è un dettaglio che può notare solo chi conosce Samuele e Carlotta) per i tanti volti di genitori, fratelli e parenti rimasti affettuosamente intrappolati nelle immagini delle memorie fisiche e digitali, e ora restituiti a distanza di pochi giorni sui grandi schermi festivalieri di Rotterdam e di Pesaro. È un film “di famiglia” per genesi e autarchia, che allarga il focolaio a tutti gli affetti, dal gruppo critico/creativo di Sentieri Selvaggi (Pietro Masciullo co-sceneggiatore, ma anche meno direttamente Laura Sinceri interprete di Arianna) agli amici di una vita Pietro Stori (produttore), Virginia Quaranta (musiche) e il fedele sodale Olmo Amato (straordinaria la sua color correction). Fino a suggerire il possibile inizio di una sorta di Bel Air italiana con i registi Andrea Sorini e Fabio Bobbio, qui rispettivamente impegnati come direttore della fotografia e montatore, a testimonianza di un ribollire italiano indipendente che finalmente cerca, anche insieme, di liberarsi dalle pastoie formali di troppo cinema (non solo del reale) ormai eccessivamente preconfezionato e sempre uguale a se stesso. Una scossa che si può dare solo facendo il proprio cinema con ostinazione e libertà, senza paura di attraversare più forme, generi e linguaggi, di citare e rielaborare mostri sacri come Malick, Lynch, Tarkovskij, Godard, Assayas o il David Cronenberg di Videodrome, di unire la grana del cellulare al 4k, il selfie allo slow cinema, il pianosequenza alla dissolvenza, l’occhio degli attori a quello del regista. Anche permettendosi qua e là il rischio di qualche leggera sbavatura e di qualche limite concettuale, di qualche discorso forse non pienamente concluso fra la tanta carne al fuoco (la teoria sullo sguardo del cellulare di fatto abbandonata a un certo punto per privilegiare le necessità narrative ed emotive, per esempio), di qualche derivazione che diventa forse di troppo o di qualche passaggio stilistico e funzionale non perfettamente coerente: fa parte del gioco, fa parte del coraggio, fa parte della rottura, e farà parte in futuro del bagaglio di esperienza. Perché in Lumina è semplicemente il cinema a costruire il cinema, con le sue sottili e perturbanti inquietudini e con la sua dolce immaginazione onirica, ed è il (meta)cinema a (ri)costruire i ricordi di una vita, e quindi un’identità. Fino a una quasi totale corrispondenza fra il percorso del personaggio, destinato a tentare di ritrovarsi vagando fra le tracce di vita e di memoria, e quello del cinema destinato a rinascere dai brandelli delle sue stesse forme ed emozioni, già diventate in qualche modo altra memoria e altro trasporto emotivo per chi le ha guardate, le ha amate e ora le ricuce insieme in una nuova e indipendentissima foggia. Idee, suggestioni e linguaggi che diventano nuove idee, nuove suggestioni e nuovi linguaggi.
Non è un caso in tal senso che la riscoperta della protagonista passi necessariamente e quasi esclusivamente dal suo (doppio) corpo, mentre la (pochissima, quasi nulla) parola è di fatto relegata ai brandelli di memoria conservati nella scheda del cellulare: ricostruire fisicamente e sensorialmente la propria esistenza si intreccia a doppio filo con la costruzione altrettanto fisica e sensoriale del cinema, con il medesimo andare avanti anche dopo essersi bloccati, con lo stesso progressivo veder crescere e materializzarsi la propria visione. Il vero e proprio incarnarsi dell’utopia di un cinema orgogliosamente autarchico, appassionato, in qualche modo guerrigliero nel suo andare avanti per la propria strada, armato di un camper su cui viaggiare e riporre l’attrezzatura ma soprattutto dell’ambizione di fare qualcosa di bello e di diverso, personale e accoratissimo, in cui è giusto credere. Attraverso personaggi doppi, obiettivi, grane e ricordi, attraverso citazioni e atmosfere, attraverso la carta fotografica, la pellicola e i file su uno schermo, attraverso la musica, il mosaico di formati e uno sguardo innamorato in macchina. Fra una lampadina e un passo di danza (del passato, del presente, del palco, del set, del vero, della finzione), fra una canzoncina per bambini e un dolore che riemerge, fra i fantasmi un tempo sacri di un affresco scrostato e la carcassa di un’auto abbandonata fra le frasche – «Sopra uno scoglietto sull’isola di Kong viveva un granchietto di nome John…». Fra la (ri)scoperta del sentimento e la (ri)scoperta del litigio, fra la (ri)scoperta del sogno e la (ri)scoperta del disaccordo, fra la (ri)scoperta della sessualità e la (ri)scoperta dell’abbandono, fra un vecchio carillon impolverato e quel premuroso e disinteressato rimboccare le coperte che, come una scintilla, in qualche modo farà da decisivo detonatore per il ritorno all’umano, al corpo, ai ricordi, alla realtà, alla vita. Non più la digitalizzazione di una vita di coppia sullo schermo di uno smartphone, apparentemente annegato nei fanghi di un pantano emotivo sempre più consapevole e doloroso, ma la fisicità materica di un uomo di buon cuore eremita in un mondo deserto, che non dice una parola ma divide volentieri un piatto di minestra, offre un letto, porge la frutta appena raccolta, sa prendersi cura delle persone e della natura. Un ritorno all’analogico che per la protagonista è probabilmente l’unica via per riuscire finalmente ad attraversare quel tunnel e ritrovare definitivamente se stessa, il proprio passato, e quindi il futuro. Che, ancor più del presente, molto difficilmente potrà fare a meno del digitale, di uno schermo che si accende, di un cellulare nuovamente portato all’orecchio. Il cortocircuito dell’esistenza, ieri, oggi e domani, la fiaba e il mondo reale. Il cinema, fatto con tutto il cuore. E la luce, che poi è l’amore, «Wish I had someone to call on the phone».
Marco Romagna