A volte, nel cinema, non è necessario costruire paradigmi: basta trovarli, capirli, saperli raccontare. Per ogni triestino, che sia doc come Davide Del Degan o greco di nascita ma ormai stabilmente trapiantato come Thanos Anastopoulos, L’ultima spiaggia è quella del Pedocìn, vicinissima alla città e comodamente raggiungibile con mezzi pubblici. È uno stabilimento storico, forse l’unico in Europa, se non nel mondo, che ancora conserva due entrate distinte per uomini e donne e un muro alto tre metri che va dalle cabine fino alle prime onde dell’Adriatico a dividere gli spazi in base al sesso. Una divisione un tempo scontata e oggi assurda per chiunque non ci sia abituato, eppure per chi continua a frequentare il Pedocìn non si è mai posta come un problema, ma è anzi una tradizione antica, radicata e immutabile, che nient’altro fa, nella naturalezza di chi ogni anno la popola dando magari appuntamento alla propria moglie a fine giornata, che porsi come chiara metafora di ogni confine, di ogni muro, di ogni barriera. Per Trieste, storicamente città-dogana e ancora nel recentissimo passato luogo di titini e antititini, di collaborazionisti e di commerci, di soldati e di controlli, di lingue e dialetti che all’italiano affiancano lo sloveno, il muro che taglia a metà la spiaggia del Pedocìn è una sorta di cartina di tornasole pronta a interrogarsi su cosa siano, ancora oggi, l’accoglienza e la separazione, mescolando nella divisione chi si sente slavo e chi lo chiama “s-ciavo”, chi rivendica con orgoglio la propria appartenenza austro-ungarica e chi si esprime in triestino stretto, chi si gode in spiaggia la pensione e chi preferisce una prima giornata di mare ai banchi di scuola. Fra i camion che attendono di entrare in porto e le barche ormeggiate dall’altro lato, a popolare L’ultima spiaggia c’è un vero e proprio microcosmo, una porzione umana ora bizzarra, ora malinconica e ora ridanciana, che i due registi si limitano a filmare lasciando che si racconti da sola fra chi ancora oggi porta sulla propria pelle e sulla propria anima gli strascichi del conflitto jugoslavo, fra chi magari, si trovava da una parte con la famiglia dall’altra, fra chi è riuscito a fuggire come profugo e chi lo ha accolto, fra chi ancora oggi arriccia il naso e cambia stazione radio appena sente parlare in sloveno e fra chi invece è troppo giovane, è nato e cresciuto nella Trieste di oggi e la memoria degli eventi l’ha solo ereditata, ma non per questo non la sente come propria fondamentale radice culturale, come identità e appartenenza, come essenza della propria terra. Quello di Anastopoulos e Del Degan è un lavoro di mappatura simmetrico ed ellittico che sta dalle due parti del muro, un campionario di microstorie, dialoghi casuali e individui, spartito fra la vitalità delle anziane signore e l’ironia spesso pungente che invece anima la parte maschile, fra vecchie canzoni nostalgiche di dominio asburgico e confronti generazionali, fra chi è di mentalità più aperta e chi si tiene stretta la propria natura di conservatore, fra chi parla, non senza approssimazioni, del Comunismo, del nazismo e della Storia recente e chi gioca a carte, fra chi prende il sole e chi parte per una nuotata, fra chi sposta quotidianamente le sedie e le sdraio, chi rimane all’erta per salvare eventuali bagnanti colti da malore e chi tenta di tenere la spiaggia pulita lamentandosi dell’inciviltà di chi ne fruisce.
Ma probabilmente non è d’estate, quando è piena, che la doppia spiaggia del Pedocìn rivela la sua essenza più intima. È al contrario proprio nei mesi invernali, quando a recarsi quotidianamente alL’ultima spiaggia sono solo gli anziani che ci vanno da una vita, che emerge la natura primigenia di un luogo che conserva con una disarmante naturalezza le sue storiche barriere nel momento in cui quelle politiche e geografiche, con i trattati di Schengen e la Slovenia in Unione Europea, sono cadute, privando sostanzialmente Trieste della sua natura di città di città di confine. Quello che vale per Trieste, tuttavia, non vale per un mondo nel quale si parla più o meno ovunque di erigere confini impenetrabili – e non serve andare lontano, non serve tirare in ballo le deliranti dichiarazioni trumpiane contro il Messico, giunte ben dopo L’ultima spiaggia quasi a rafforzarne ulteriormente l’idea alla base: è sufficiente spostarsi di poche centinaia di chilometri e pensare alle questioni irrisolte sui confini della vicina Slovenia, sbarrata dalla dogana sulla linea che la separa dalla Croazia e, dall’altra parte, sotto le pressioni di un’Austria che minaccia in continuazione di costruire muri per impedire l’accesso dei migranti. In questo senso, L’ultima spiaggia è una metafora (in)consapevole e chiarissima, è una passeggiata ondivaga ed episodica sui confini e sulle identità nata da oltre un anno di riprese e da due sguardi focalizzati su un unico e simbolico luogo, è un lavoro di mappatura quasi geografica sulla fauna di un mondo chiuso e diviso che, sullo stesso sentiero del Sacro GRA secondo Gianfranco Rosi ma con una ben diversa e ben più apprezzabile impronta etica che fa cinema del reale sul reale e sull’osservazione e non mascherando da documentario la pura messa in scena, mette di fronte a un campionario umano straordinario nella sua quotidianità al contempo identica e variegata, e nella sua totale immersione e accettazione di un qualcosa – retaggio di quando un costume da bagno era considerato “sconcio” – che a chiunque altro appare oggi come semplicemente assurdo. Gli avventori della spiaggia portano il cibo ai gatti, puliscono le cabine e i tavoli, si fermano al sole, anche d’inverno con le giacche, a chiacchierare del più e del meno, tagliano le catene che inchiodano le sdraio e chiamano il pronto intervento nel momento in cui tutti i bagni si intasano in contemporanea. Parlano del passato e sospirano al futuro, scherzano fra loro, riflettono sul passare del tempo e sull’immutabilità del Pedocìn, probabilmente senza nemmeno rendersi conto di come i loro discorsi casuali e probabilmente ripetuti a oltranza nel corso degli anni si possano rivelare come uno sguardo dall’interno su tutti i confini. Al Pedocìn la vita e la morte camminano a braccetto, scavando lo stesso solco nella spiaggia di pietre. Si pensa a chi ha lasciato la borsa da mare nella cabina per lanciarsi dal quarto piano, si ricorda chi nel corso degli anni è passato, ci si confronta con la consapevolezza della morte, procedendo fino a chi, dall’altra parte del muro e forse anche dell’umanità, dichiara con l’ingenuità dell’ignoranza e con malcelato disprezzo di non mangiare più pesce “Con tutti questi morti in mare, questi immigrati”.
È buona, anzi ottima, l’idea di partenza che muove le macchine da presa verso L’ultima spiaggia. Nella (ri)scoperta di un luogo a due passi dal centro di Trieste, ma in un certo senso fuori dal tempo e dal mondo quotidiano, i due registi mostrano una sorta di realtà parallela eppure universale, lavorano sull’uomo, sulle sue abitudini, sulle sue passioni, sulle sue risate, sulle sue debolezze. Portano sullo schermo tutte le possibili anime di una città e di ogni confine, lasciando che sia semplicemente chi è inquadrato a raccontarsi vivendo la propria quotidianità. Eppure, questa idea finisce quasi per rimanere più luminosa sulla carta che sullo schermo, sul quale parte delle potenzialità del film navigano alla deriva nella ripetitività e in una lunghezza eccessiva, che alla lunga finiscono per stancare e svelare troppi momenti di sostanziale aridità. Ai tempi della prima proiezione del film, ospitato quasi a sorpresa fra le Proiezioni Speciali di Cannes in un palcoscenico condiviso con autori del calibro di Albert Serra e Rithy Panh, L’ultima spiaggia durava 136′, ma i due autori già avevano detto, fra le righe, che la versione presentata sulla Croisette era “solo” una seconda stesura non definitiva, probabilmente chiusa più o meno in fretta e furia per, giustamente, sfruttare l’occasione di presentare il film su una passerella così importante. E per quanto la versione proiettata al Bergamo Film Meeting sia quella successiva e forse finale, con un montaggio di 119′ che ha già limato oltre un quarto d’ora di lungaggini, è inevitabile non fermarsi a pensare a come un’altra sforbiciata non potrebbe che giovare al film, il cui materiale è sì estremamente interessante, ma probabilmente non sufficiente per riempire le due ore senza che i discorsi finiscano per reiterarsi, le sdraio e le sedie per essere spostate decine e decine di volte, e il ritmo del documentario per ristagnare in lunghi istanti di sterilità, nei quali a mancare, oltre ad argomenti di un qualche interesse, è anche la vitalità che per almeno un’ora e mezza anima le immagini. In un percorso così altalenante, è inevitabile che non tutti i dialoghi abbiano la stessa pregnanza, che non tutte le situazioni conservino la loro portata metaforica, e che di conseguenza, se il montaggio non asciuga a sufficienza il diseguale materiale raccolto, ci si imbatta anche in incontri in sostanza inutili. Leggendo questa mancanza di scrematura in altro modo, tuttavia, l’eccessiva lunghezza del film andrebbe considerata come un peccato veniale, che incide sì sulla fruibilità, ma in un certo senso alimenta ulteriormente l’afflato umano dei due autori, per i quali ciò che più conta sono le persone che stanno di fronte al loro obiettivo: in un lavoro di incontri casuali, può capitare che i registi si affezionino a un personaggio o a una situazione, e che per quanto l’economia del film possa imporre di tagliarli al montaggio si decida di lasciarli comunque, donando a questi esseri umani pochi minuti di immortalità. Del resto, se da una parte lascia perplessi anche il (breve) ricorso alle immagini d’archivio, sempre affascinanti nella loro grana materica eppure questa volta posticce e quasi fuori tema, dall’altra, oltre all’interesse politico, sociale e antropologico nel mostrare uomini e donne che inconsciamente ridefiniscono quotidianamente il concetto stesso di confine, L’ultima spiaggia ha dalla sua un capitale umano, storico e culturale non indifferente, e l’indubbia capacità di valorizzarlo con il respiro mozzato delle immagini subacquee, nelle quali lo specchio del mare è una sorta di secondo muro che non può che capovolgere l’immagine e forse la realtà, con le danze velate di fine stagione, con una macchina a mano sempre discreta e quasi invisibile per quanto a brevissima distanza dall’azione, con un’etica granitica. È un film interessante, quello di Anastopoulos e Del Degan, forse anche più che interessante, carico di suggestioni e di spunti di riflessione, e che senza dubbio va difeso a spada tratta. Ma rimane, nel profondo, una sorta di rimpianto per non essere riusciti ad abbandonarsi e ad amare senza riserve quello che sarebbe potuto essere un capolavoro o quantomeno un grande film, e che invece – per ora – si è accontentato di assestarsi su un livello discreto.
Marco Romagna