Avvertenza: quello che segue sono le riflessioni di un dichiarato ateo, sospettoso per natura nei confronti dei pontefici e non di rado avvezzo alla blasfemia.
Una delle migliori intuizioni di sceneggiatura di Paolo Sorrentino nel tratteggiare quel The Young Pope interpretato da Jude Law che, seppur reazionario oltre i limiti del medievale, sa curare la sua (non) immagine con un piglio tanto moderno da riscaldare le folle e recuperare fedeli fra i giovani, è il dialogo nel quale lo stesso giovane Papa tira fuori i Daft Punk. La decisione del duo elettronico francese di non mostrarsi in pubblico se non ricoperti, casco integrale compreso, da divise robotiche, e in particolare la loro capacità di creare un’aura di mistero e leggenda evitando accuratamente di mostrare i volti, diventa nella serie di Sorrentino la spiazzante decisione del Papa di non farsi mai vedere, di lavorare nell’ombra, e nel frattempo di attirare l’attenzione delle folle su un Santo Padre misterioso e invisibile. È un’abile mossa di marketing, con la quale, nella finzione, il Papa si pone da subito come un idolo (in)avvicinabile, come un fenomeno di costume sul quale tutti inevitabilmente si interrogano. Come una popstar. Già, una popstar. Forse proprio L’ultima popstar, con la differenza che nel mediometraggio con il quale Claudio Casazza, Carlo Prevosti e Stefano Zoja si sono portati a casa il Premio della Giuria di Cinemaitaliano.info all’ultima edizione del Festival dei Popoli è tutto vero, ora mistico, ora ridicolo, ora sinceramente inquietante. Sardonico sin dal titolo, L’ultima popstar è stato interamente girato il 25 marzo 2017, giorno nel quale Papa Francesco ha celebrato messa a Monza di fronte a un intero parco gremito di fedeli di ogni età. Ma non è tanto il pontefice a interessare i tre registi, e tanto meno la funzione da lui celebrata. Quello che conta è l’interesse che Bergoglio scatena, la sua visibilità pubblica, il suo essere al contempo simbolo sacro ed evento di massa, mito e reliquia, Fede e figurina. Quello che conta è il suo ruolo, la sua immagine, e soprattutto la sua fruizione nazionalpopolare, riflessa in chi lo attende come si attende un evento, un’apparizione, o appunto un maxiconcerto, e se questo si rivelerà uno svilimento della sacralità del pontefice o una necessaria concessione al moderno come abile mossa per alimentare e ravvivare il potere (in declino) della Chiesa, da sempre centrale nello scacchiere politico mondiale, ce lo saprà dire solo la Storia. Anzi, Jorge Bergoglio, L’ultima popstar, nel film-documentario “sulla sua visita a Monza” quasi non si vede, relegato alle immagini della papamobile in arrivo riprese direttamente dai maxischermi e a una voce fuori campo che benedice la folla nel finale, “Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”. Quello che i registi mostrano sono invece le genti accorse, i pellegrini a piedi da Bergamo, la prima donna che ha varcato i cancelli, i continui arrivi di intere fiumane di uomini e donne di ogni età, genitori e figli, nonni e boy scout, goffi individui e baldanzosi giovani, tutti diversi ma in quel momento tutti uguali fra i gadget, il sudore sotto il sole a picco, l’entusiasmo e l’innalzarsi dei canti di lode.
L’ultima popstar, come una sorta di Aspettando Godot, non si focalizza sull’arrivo del Papa, ma è l’attesa del suo arrivo, declinata in un mosaico umano dei più eterogenei che in mezzo ai pellegrini e ai fedeli cerca e trova volti, istanti, situazioni, emozioni, passatempi e dialoghi. Ci sono le code davanti ai cancelli, c’è l’entrata con un folle anticipo, ci sono gli accampamenti seduti per terra, ci sono le sedie pieghevoli portate da casa da chi è più anziano e previdente, ci sono gli immancabili cori da stadio per Papa Francesco e le bandiere spesso improvvisate, ci sono le ultime hit trasformate in cover sulla santità del Papa, ci sono i bambini che giocano e le loro nonne che si riparano dal sole sotto gli ombrelli. Ci sono improbabili balli che sconfinano nel trash inconsapevole, ci sono foto di gruppo e schitarrate conviviali, ci sono (ancora, nel 2017) i Lunapop in diffusione con le loro 50Special. E poi ci sono i cappellini e le sciarpette commemorative bianche e gialle, ci sono le parabole lette sugli schermi degli smartphone, ci sono i video trasmessi in diretta da chi non può mancare all’evento: è la Fede 2.0, è la religiosità ai tempi dell’internautica, è il New Deal della popolarità ecclesiastica. Ed emerge così, chiaro e tangibile anche se intelligentemente mai esplicitato, come quello organizzato a Monza sia stato un evento che nei fatti poco o nulla c’entrava con la religione: è stato business, sono stati maxischermi, è stata Radio Italia come sponsor e diretta, sono stati i dj sul palco a organizzare la ola e a garantire l’intrattenimento, è stato l’hashtag #tiportoviaconme con il quale citare Jovanotti nei selfie e rendere l’evento social, cool, giovane. Ma anche, o forse soprattutto, profondamente ipocrita e contraddittorio, come questa “nuova” Fede vissuta come si vive una moda, come gli stand dei panini e la corsa ai gadget venduti a prezzi non propriamente in linea con i dettami di povertà dal merchandising ufficiale, come lo stesso ruolo del Papa trasformato in un fenomeno di costume più o meno con la stessa invadenza con la quale il consumismo ha fagocitato la sacralità del Natale. Del resto, che sia sincera o minuziosamente costruita con strategica mossa politica e di marketing (questo non sta a noi giudicarlo, non ci interessa farlo e nemmeno ne saremmo in grado), la sua immagine di Santo Padre buono e progressista è esattamente ciò che serviva in questi anni per rilanciare la Chiesa, e, a voler essere complottisti, potrebbe benissimo essere parte di un disegno iniziato con le misteriose dimissioni del (troppo apertamente) duro e inflessibile Ratzinger. Casazza, Prevosti e Zoja sono tuttavia abili a dissimulare tutto questo, a girarci intorno stando attenti a lasciarlo sullo sfondo, come una riflessione a disposizione di chiunque abbia voglia di coglierla, ma senza alcuna aperta offesa, né materiale “incriminante”, per chi non aspetta altro che gridare alla blasfemia e invocare la censura. Fra le recensioni più entusiastiche al film spiccano anzi quelle di riviste filopapali, che parrebbero non avere colto molto dell’ironia agrodolce insita nella giocosamente (im)pietosa grammatica de L’ultima popstar, ma in compenso hanno visto esattamente il video-sponsor che avrebbero voluto, fatto di eroiche attese e di miracolose apparizioni che diventano il pane con il quale finalmente nutrire le proprie anime.
Per fortuna, però, non è solo l’italiano la lingua con cui L’ultima popstar si esprime. Ce n’è un’altra, priva di confini nazionali, con la quale il film sfonda la sua superficie e offre le proprie riflessioni e i propri assunti: è la lingua delle immagini, è il linguaggio cinematografico, è lo specifico filmico del montaggio, con la scelta di cosa mostrare e quando, in quale ordine, con quale piglio e con quale senso. I tre registi, nello scandagliare attraverso le sue ripercussioni sull’immaginario dei cattolici come venga percepito il Papa in occasione di una sua visita, evitano accuratamente ogni tipo di retorica e ogni tipo di esplicito commento personale, scelgono una posizione apparentemente equilibrata, il più possibile oggettiva, dalla quale ognuno possa desumere, in base al proprio rapporto (o al proprio mancato rapporto) con il divino, ciò che vuole leggere dal mosaico direttamente estrapolato dall’assemblea dei fedeli. Ma, fra le righe del loro tono ora rigoroso e ora giocoso quasi nel solco della Roma secondo Fellini, dalla loro insistenza sulle più esplicite ipocrisie che albergano sopra e sotto il palco e dalla loro capacità di mettere in risalto (e in ridicolo) i momenti di maggiore trasporto fra squallide canzoni pop e tendenze papali su Instagram, non è certo difficile leggere che cosa il film stia realmente mostrando, e come questo mare di fedeli che come un gregge (di pecore) accorre al proprio pastore sia sinceramente preoccupante nel suo campionario di contraddizioni, nella sua totale fiducia nel pontefice e quindi in un’istituzione Chiesa che è ben più ramificata e non è certo linda ed esente da colpe storiche, nella sua omologazione in una religiosità svenduta, o per lo meno trasformata in altro, in puro business, in simbolo di facile consumo, in pubblicità. Ben al di là delle singole corse verso il palco dei ritardatari, ben al di là delle singole microstorie che L’ultima popstar raccoglie e restituisce con le sue macchine da presa e con i suoi microfoni, emerge un marasma umano tra l’invasato e il modaiolo, tra il supertradizionale e l’ipermoderno, fra la preghiera e l’attesa solo per poter dire “io c’ero”, mentre al di sotto di tutto questo, e probabilmente ben al di là di Jorge Bergoglio, il vero Potere continua il suo lavoro nell’oscurità, sotto la comoda ombra del Papa popolare e della sua ostentazione di giustezza e bontà. Secondo tre donne nel parco che fanno quasi a gara a chi ha visto più volte Francesco “è lo Spirito Santo che sceglie il Papa che serve in quel momento guidando la mano dei cardinali”, ma la verità è che nessuno potrà mai sapere cosa davvero accade e viene detto durante un Conclave, momento in cui non si decide solo un rappresentante ma una ben precisa linea da seguire, con la religione relegata a ultimo dei problemi. Eppure è proprio nel loro discorso che sta inconsapevolmente la chiave: “il Papa che serve in quel momento”. L’ultima fumata bianca ha decretato che L’ultima popstar fosse Jorge Bergoglio/Francesco I, ben precisa scelta politica ed economica, e ancor più precisa immagine pubblica. L’immagine del buono, del progressista, dell’aperto. L’immagine, vincente, dell’uomo che emoziona, del quale sembra quasi di percepire l’aura di santità. L’immagine dell’uomo che si vuole vedere, che si vuole salutare, che si vorrebbe toccare e che si vuole ricordare. L’immagine dell’uomo al quale ci si vuole abbandonare, presi all’amo (dell’amore, s’intende) senza più resistenze. Fino a non rendersi più conto che, in tutto questo, il Papa è diventato Vasco Rossi e la messa è diventata un Festivalbar. Specialmente proprio quando finisce Omar Pedrini e attaccano gli organi e il coro, canto d’ingresso sul quale Papa Francesco viene issato ancora una volta sul suo scranno. “Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”. E così sia, nei secoli dei secoli.
Marco Romagna