Ritorna il noir all’italiana. Disperso ormai da decenni dopo aver vissuto la sua stagione aurea lungo gli anni Settanta, del poliziesco/poliziottesco si erano letteralmente perse le tracce. Nessuno anzi, tranne sporadicissimi tentativi, poteva immaginarne o auspicarne un ritorno. Con L’ultima notte di Amore ci ha pensato l’insospettabile Andrea Di Stefano, attore di lungo corso al suo terzo lungometraggio da regista, a dare una bella scossa all’abbioccata industria di casa nostra. Gli incassi continuano a essere buoni se non ottimi, l’appeal di Pierfrancesco Favino non sbaglia più un colpo, il marchingegno di suspense allestito per il film avvolge inestricabilmente ampie fasce di pubblico. Piace a tutti, L’ultima notte di Amore. Chiunque ne parli, ne parla bene. Critica e pubblico. Dalla primissima proiezione di un mese fa nel fuori concorso della Berlinale al ritorno in Italia per una tenitura che continua, sulla scia del successo, ad allungarsi di settimana in settimana. Una convergenza simile non si verificava da molto tempo nel nostro cinema mainstream. E viene davvero da salutare con grande fervore questo exploit di cinema serio e professionale tutto proiettato a un’idea di «medio consumo» totalmente sparita dai nostri radar con la sola, invadentissima eccezione della commedia. Il nuovo film di Andrea Di Stefano è anche cinema di genere, fatto per essere visto e consumato a finalità di intrattenimento, realizzato con un ammirevole approccio di alto profilo. Da anni lamentiamo l’assenza nel nostro cinema di una fascia mediana di produzione che rimpingui le esili casse del prodotto italiano e che riesca più o meno a competere con il corrispettivo straniero. Negli ultimi decenni lo scontro ha assunto dimensioni mostruosamente impari, ma Di Stefano ha fatto un tentativo e ha raccolto risultati lusinghieri. Resta solo la speranza che non si tratti di un caso isolato, o che all’estremo opposto ciò non si traduca in uno sfruttamento massivo a copia carbone per anni, altra spiacevole abitudine produttiva tutta italiana 2.0.
Il poliziotto è marcio, titolava un celebre film di Fernando Di Leo nel 1974. Franco Amore non è marcio, è generalmente ligio al dovere. Magari si concede qualche libertà oltre al limite del lecito ma è sostanzialmente un eroe positivo, di quelli che se peccano lo fanno per bontà e fiducia. Semmai, Franco Amore è circondato da un contesto che fa di tutto per tirarlo verso il marcio. Alla sua ultima settimana di lavoro prima di andare in pensione dopo trentacinque anni di onorato servizio, Amore salva la vita a un attempato signore cinese, il quale sembra volerlo coinvolgere in un lavoro di security come atto di riconoscenza. Il primo incarico, però, deve svolgersi proprio negli ultimi giorni prima della pensione. Amore tentenna, non ci sta. Lui è nato per rispettare le regole. Sua moglie Viviana, un po’ dolce un po’ ingenua un po’ furba, lo convince, e pure un losco cugino della moglie insiste molto. Ovviamente niente fila liscio, ci scappano pure diversi morti, e la festa a sorpresa per il pensionamento si trasforma per Franco in una notte da incubo.
Del canone poliziottesco Di Stefano sembra evocare soltanto una generale cornice di riferimento. C’è tanta azione, questo sì, soprattutto nell’efficace sequenza della strage in strada. C’è suspense, moltissima e crescente, ben gestita nel lungo stallo al sottopassaggio che occupa tutta la seconda parte del racconto – una menzione speciale merita la sequenza della ricerca dei gioielli da parte di Viviana. C’è anche qualche citazione diretta (quella Piazza del Duomo sul finale, che rimanda immediatamente al fondante Milano calibro 9; la conclusiva minaccia della morte che incombe; l’ottimo tema musicale di Santi Pulvirenti che riecheggia i brani di Stelvio Cipriani per La polizia chiede aiuto, Massimo Dallamano, 1974, invero riutilizzati anche per altri film dell’epoca), ma con lo stesso peso di un puro e semplice inside joke. Rispetto al cupo romanticismo noir del poliziottesco anni Settanta, Di Stefano sembra però essere mosso da una più spiccata istanza di realismo. Amore non è un commissario spietato e dal grilletto facile, è anzi un grigio funzionario con tanto di parlata dialettale. In tal senso risulta estremamente efficace la cornice sociale che L’ultima notte di Amore costruisce intorno al suo protagonista. Per una volta il dialetto non è macchietta, ma marca significativa di un provincialismo culturale che si conserva, pressappochismi e facilonerie compresi, pure in una metropoli come Milano. Per festeggiare il cinese sopravvissuto Viviana si presenta alla festa all’ultimo piano di un grattacielo con una teglia di parmigiana di melanzane, dando luogo a un siparietto benissimo sceneggiato che non cerca mai la risata ma semplicemente si preoccupa di costruire un personaggio. Del resto, Franco Amore è collocato in un contesto dai confini sfumati fin dalla sua famiglia – lui è integerrimo, ma non ha fatto carriera in polizia a causa dell’attività criminale dei cugini della moglie. Di Stefano punteggia continuamente il proprio racconto di notazioni finissime, e soprattutto si prende cura delle figure umane evocate. Sembra poco e ovvio, ma nell’attuale cinema italiano di medio consumo è tantissimo. Poi certo, qualche preziosismo grammaticale lascia un po’ il tempo che trova (il piano-sequenza dalla polizia al bar all’ora di pranzo: perché?), ma la globale solidità della costruzione è indubbia.
Il pregio più evidente è da rintracciarsi in una robusta persuasività narrativa. A guardarlo più da vicino L’ultima notte di Amore è tempestato di piccole e grandi improbabilità narrative, soprattutto strette nell’intarsio tra presente e passato narrativo sul quale il film gioca anche un buon numero delle sue carte di suspense – tanto per fare un esempio, Viviana si assenta lungamente dalla festa a sorpresa per poi giustificarsi con l’acquisto di una bottiglia di superalcolico. Coincidenze, ritrovamenti miracolosi, e pure qualche scelta opinabile da parte dei protagonisti – perché portare un bambino sul luogo dove è stato ucciso suo padre? Ogni tanto si ha insomma l’impressione che non tutto torni con esattezza, o che comunque si stia rasentando l’implausibile. E capire a chi attribuire la responsabilità dell’intrico è a portata di chiunque alla prima apparizione degli infami, prima ancora che sia scattato un qualsiasi innesco narrativo. Tanto che viene pure da chiedersi come sia possibile che un furbone come Amore si sia potuto far intortare così scioccamente. Se dunque la fabula è talvolta acerba e ingenua, d’altro canto l’intreccio è scaltrissimo e avvincente. L’esempio più calzante è di nuovo la sequenza della ricerca dei gioielli. Implausibile, ma quanto vogliamo crederci. A ben vedere, è un pregio in qualche modo riconducibile alla forza persuasiva del cinema di genere americano. Farci desiderare di credere all’incredibile. Più volte L’ultima notte di Amore stuzzica il nostro desiderio di meraviglia. Sì, è implausibile, praticamente impossibile. Ma va bene così, va bene lo stesso. Il brivido corre lungo la schiena, e tanto basta. Non è certo poco, e il cinema italiano di consumo (forse) oggi è un po’ più forte di ieri.
Di Favino già sappiamo. È bravissimo, uno dei pochi veri cavalli di razza fra gli attuali attori italiani. Pure di Antonio Gerardi non si può dir che bene. Ma Linda Caridi è semplicemente splendida, e più volte ruba il film a tutti. Ha il personaggio meglio scritto, il più sfaccettato, il più problematico. Grande prova. Chapeau.
Massimiliano Schiavoni