LUCKY (2017), di John Carroll Lynch
Comincio con una breve nota personale: Lucky è il “mio” film maledetto. Ho sempre voluto vederlo da quando ne ho scoperto l’esistenza, ma per vari problemi sono incappato ogni volta in stolti intoppi festivalieri, tra Locarno e Lucca. Ora, negli ultimi giorni dell’estate torrida del 2018, finalmente esce in sala in Italia questo piccolo grande film indipendente sull’America, sulla morte, sulla vecchiaia e sul passaggio del tempo, sulla spiritualità e sulla solitudine. Ma c’è un motivo per cui l’ho sempre voluto rincorrere, nonostante sia di un regista esordiente (John Carroll Lynch, soprattutto attore noto prevalentemente per i ruoli in Fargo dei Coen e Zodiac di Fincher), ed è, per una rara volta nella mia esperienza di spettatore, il cast, anzi, l’attore protagonista. Harry Dean Stanton, scomparso lo scorso autunno a 91 anni, è uno dei miei attori americani preferiti, e a Locarno l’anno scorso, quando non sono riuscito a vedere Lucky perché la proiezione al Palavideo aveva già riempito la sala, dicevo sempre ai miei amici e ai miei colleghi che era il mio attore vivente preferito. Adesso sfortunatamente ci ha lasciato, ma la sua dipartita dà un maggiore valore a questo film, che di fatto gira attorno a lui, alle sue rughe, alla sua voce. La carriera di Stanton, attivo dagli anni ’60 fino a questo film, è di una ricchezza rara: ha lavorato con Hitchcock e con Carpenter, è apparso in Nick Manofredda e in Alien, in Repo Man e L’ultima tentazione di Cristo, nelle serie TV Big Love e Chuck. Era il caratterista statunitense definitivo, volto riconoscibile fra mille, quasi sempre in ruoli secondari, quasi sempre con personaggi drasticamente diversi. Ha fatto cameo in qualsiasi tipo di film, da This must be the place a The Avengers, da Paura e delirio a Las Vegas a Sette psicopatici. Era amico di David Lynch (che appare in questo film, ma ne scriverò successivamente) ed è apparso nella maggior parte dei suoi film da Cuore Selvaggio in poi, finché il regista di Twin Peaks non ha dato una forma drammaturgica spirituale al corpo di Stanton con il campo-controcampo celestiale della puntata 6 de Il Ritorno. E l’attore è anche soggetto di un curioso documentario, Harry Dean Stanton: Partly Fiction di Sophie Huber, in cui molte interviste risaltano il suo complesso pensiero filosofico, che torna imperante in Lucky. Ma il ruolo per cui verrà sempre ricordato, probabilmente, è quello del protagonista di Paris, Texas di Wim Wenders, Travis. In Lucky, il suo personaggio, che si chiama, appunto, “Lucky”, sembra una specie di crasi tra Stanton stesso e proprio Travis, in un immaginario Limbo di vecchiaia che è tremendamente realistico ed egualmente purificante.
In Lucky, non succede niente, o quasi. Un vecchio ateo che vive da solo e non si è mai sposato è messo alla prova dalla realizzazione improvvisa che non vivrà per sempre, e comincia a interagire diversamente col mondo attorno a lui; o, perlomeno, ci prova. Finché non deve confrontarsi con la realtà, e nel farlo si ritrova a empatizzare di più con gli altri ma soprattutto ad accettare il proprio destino. Non c’è molto più di ciò, nella morale del film, ma ci si può girare attorno leggendone i simbolismi; c’è la necessità di riconciliazione tra Lucky e i suoi amici del bar, con cui litiga a causa del suo pregnante nichilismo, ma ci sono anche le sue amicizie con una donna nera e una messicana, che ristabiliscono un po’ di ordine, di affetto e di bellezza nella sua quotidianità facendogli fumare una canna o invitandolo a una festa di compleanno. Le abbraccia e canta per loro, trovando brevi parentesi di catarsi. Riesce anche a stringere un nuovo rapporto significativo facendo amicizia con un suo quasi coetaneo al bar, condividendo con lui brutali e deprimenti esperienze belliche del lontano passato – e anche il racconto della violenza diventa opportunità per una purificazione e una riconnessione con la potenziale bellezza della vita. Ma tra gli amici di Lucky il più importante è Howard, interpretato da David Lynch (che non ha nessuna relazione col regista di questo film), in particolare nel momento in cui questi comincia a sentirsi solo e depresso quando scappa la sua tartaruga, di nome Presidente Roosevelt. Il rettile disperso è una parabola del percorso spirituale di Lucky, sono coetanei, entrambi che scappano dalla vita per vivere. Si crea tra loro un empatia che non ha mai modo di sfociare in un dialogo né in un confronto neanche quando si trovano nello stesso spazio. Ma Lucky alla fine riesce a fare quello che non è riuscito a fare per tutto il resto del film: sorridere con piacere.
E tutti questi approfondimenti drammaturgici sono veri dentro il semplice meccanismo, e sono perfettamente collegati l’uno all’altro secondo una logica narrativa minimalista che alterna la lentezza tipica dei film indie da Sundance a uno sguardo più meditativo, contemplativo, che sfocia nell’onirico. E si può anche accusare il film di essere retorico, nonostante la sua sincerità non abbia nulla a che vedere con la patina che solitamente contraddistingue i film più buonisti tra i drammi intimisti statunitensi. Però è innegabile il fascino dell’aspetto prosopopeico che lega Lucky a Stanton, e l’ambiguità morale che ne fuoriesce. Le visioni spirituali navigate dell’attore, psiconauta intellettuale distaccato dai credi Giudaico-cristiani e più vicino al pensiero del Buddhismo, si cristallizzano perfettamente nella progressione interna del suo personaggio; Lucky trova la pace interiore attraverso quella che in termini psicotropi è definita la morte dell’ego o morte mistica. In Partly Fiction, parlando proprio con David Lynch, Stanton dice ridendo che «there’s no such thing as self», l’ego non esiste. Quando Lucky scompare verso l’orizzonte, felice di poter abbandonare la vita senza soffrire, il suo ego smette di essere in campo e si unisce con la bellissima radura del deserto, con l’albero millenario e la tartaruga che passa lentamente come complici e testimoni. Tutto è connesso, ma non in un modo rappresentabile, al di fuori dell’incontro mistico con l’Aldilà che Lucky ha durante un sogno al neon. Il protagonista rimane un ateo, che non vede materializzarsi un credo o un’astrazione; il regista John Carroll Lynch decide di implicare il credo di Stanton nel fuori campo, come sottolineando la simbiosi tra attore e personaggio come una cosa che supera le barriere di cosa è interno e di cosa è esterno all’interno del film. La sceneggiatura degli esordienti Sparks e Sumonja è un bel testo quasi teatrale colmo di monologhi, la regia è precisa e quadrata, ma non ci sarebbe così tanta intensità se non ci fosse Stanton. Per l’ultima volta, si fa inquadrare, vive attraverso le immagini, abbandona la crisalide e si stacca dai ruoli di sottofondo. Torna protagonista e, per l’ultima volta, torna Travis. E solo così il suo addio al cinema può essere delicato e necessario, non solo come tributo al suo corpo e alla sua personalità, ma come film testamentario che possa rappresentare una documentazione di un’esistenza. Lucky è un film-martire.
Nicola Settis