Sosteneva Charlie Chaplin, in una frase fatta sua da Jean-Luc Godard nel pensare le inquadrature di Une femme est une femme, che i campi lunghi sul totale dei corpi nello spazio fossero la base inossidabile della comicità slapstick e in generale della commedia, ma che per filmare la tragedia non si potesse fare a meno del primo piano che stringe sui volti, sugli occhi che all’improvviso si fanno sempre più lucidi, sulle emozioni e sui turbamenti che si dipingono in ogni più impercettibile contrazione delle labbra, della fronte, degli zigomi e della pelle. Una lezione di linguaggio cinematografico che Silvia Luzi e Luca Bellino, dal sorprendente Il cratere con cui sette anni fa avevano esordito alla finzione ma in realtà già dalla loro precedente vita documentaristica (invero mai del tutto abbandonata, vista l’ambientazione sociale assolutamente reale, sottoproletaria e intrinsecamente marxista in cui immaginano le loro storie fra non-attori e coscienza di classe), portano avanti con orgoglio e fino alle più estreme conseguenze nel dramma dalle affascinanti venature thriller della loro splendida opera seconda Luce, “grande salto” dalla SIC veneziana al Concorso principale del 77mo Festival di Locarno, ma soprattutto “grande salto” produttivo con il quale per la prima volta, senza perdere nemmeno un briciolo delle proprie idee di messa in scena e anzi raffinandole in un’opera definitivamente compiuta e matura, abbandonare la completa indipendenza per lavorare con una troupe “vera”, e affiancare ai consueti interpreti non professionisti (in questo caso i conciatori di pelle di Solofra, in provincia di Avellino, romanzati nella loro quotidianità e nel loro lavoro) una Marianna Fontana semplicemente straordinaria nel caricarsi il film quasi interamente sulle spalle, o per meglio dire sull’espressività del volto, in elaborati e radicali pianiquenza dinamici ed emotivi con cui la coppia di registi costantemente la segue senza mai allontanarsi troppo dal suo viso. Un ruolo, quello interpretato dall’attrice campana, che va ben oltre la grande performance in sottrazione con cui incarna l’ossessione di una figlia nei confronti di un padre forzatamente assente che è sostanziale controcampo (o forse seconda parte di una serie sul rapporto con i padri, chissà cosa riserverà il futuro…) dell’ossessione del genitore verso la figlia nel film precedente di Silvia Luzi e Luca Bellino, ma che da una parte l’ha vista disposta a (ri)diventare una sostanziale non-professionista accettando mesi e mesi di preparazione in cui lungamente costruire e vivere il suo personaggio prima di poterlo interpretare, e dall’altra l’ha vista sostanziale co-co-regista (o per lo meno co-co-sceneggiatrice) direttamente sul set nel tenere le redini e coordinare “in campo”, un po’ come Vincent Lindon nei più riusciti film-fabbrica di Brizé, le sue interazioni con i colleghi non-attori. Per un film di dettagli, di sfocature mirabolanti in cui la scelta di diaframmi il più possibile aperti fa guardare al mondo esterno con la stessa indefinitezza con cui metaforicamente deve fare i conti la protagonista, ma anche di assoluta centralità dello strepitoso sound design “telefonico” e di progressivi disvelamenti che, come le emozioni, hanno bisogno del loro tempo per passare dall’insondabile inquietudine del mistero alla più pura commozione. Anche se forse non perderanno mai del tutto la loro inevitabile aura di ambiguità, di (s)fiducia, di (auto)protezione, di dubbio irrisolvibile, di sostanziale menzogna, o per lo meno di auto-messa in scena di se stessi con cui addolcirsi e teneramente tentare di addolcire la pillola di un’esistenza quotidiana di dolore, solitudine e mancanza.
Il resto è tutto una gabbia filmata (d)all’altezza degli occhi della protagonista. Una gabbia, reale, di noia insostenibile dentro le mura del carcere, e una gabbia, metaforica, di sfruttamento semimeccanizzato e straniante in una conceria con tanto di inferriate. Ma anche una casa-gabbia in cui vivere soli (magari con i suoi armadi-gabbia da riuscire finalmente a schiodare da vent’anni di scheletri) come alternativa alla gabbia di una famiglia amputata in cui non poter fare a meno di continuare a sentirsi fantasmi, una gabbia di traumi del passato e una gabbia di indeterminatezza del presente, una gabbia di dolore e una gabbia di piccoli ricatti. Prigioni da cui tentare di evadere mettendosi In linea con l’assassino (sempre che di un omicida si tratti: non serve sapere quale sia la sua colpa, né tanto meno se sia colpevole o innocente), fino a passare dalla suspense tesa di Scream alla più pura e liberatoria lacrima di gioia di chi finalmente sente un affetto. Ma soprattutto dalla finzione alla verità, tanto esistenziale quanto politica e sociale, che Luzi e Bellino utilizzano come una tela su cui dipingere liberamente le trame del loro immaginario. Come Jonas Carpignano, ma probabilmente ancora meglio di Jonas Carpignano, con molta più sporcizia, con ancora più dolore, con ancora più sincerità. Passando per un drone e per un cellulare, per una sbronza e per una balera, per un’ingiusta punizione sul lavoro e per un cartone di latte, per un telefonino che dal silenzio e dai sospiri di quello che sembra uno scherzo di cattivo gusto aprirà sempre più alla parola, alla (ri)nascita di un rapporto umano, al ritrovarsi dopo essersi aspettati per più di vent’anni. O forse a una grande illusione, ma anche se fosse poco importerebbe: l’unico modo per liberarsi e tornare finalmente a vedere la Luce è ostinarsi a desiderare e a crederci, e via via abbandonarcisi con tutto il cuore. Del resto «i desideri sono meglio delle promesse», verrà apertamente detto proprio nel momento in cui la figlia senza nome interpretata da Marianna Fontana, durante la prima comunione di una cugina, vedrà il drone guidato dal fotografo e avrà l’intuizione, o forse per meglio dire il lampo di Luce, con cui immaginare il piano per riuscire a ritrovare un dialogo telefonico con il padre, anch’egli senza bisogno di un nome e nemmeno di un volto, recluso a Poggioreale o chissà in quale altro carcere. Ma questo, intelligentemente, Silvia Luzi e Luca Bellino scelgono di farlo capire solo strada facendo, poco alla volta nello scorrere della narrazione e dei loro magnifici pianisequenza in primissimo piano, lasciando lo spettatore a macerare nella stessa incertezza della protagonista, nella medesima inquietudine, in un’identica tensione sospesa fra la gioia e la nervosa trepidazione. Nella medesima guardia che deve necessariamente rimanere alta per poi abbassarsi progressivamente fino a sciogliersi in una reciproca appartenenza, di un padre e di una figlia, ma anche di un film e di chi guardandolo non può fare a meno di emozionarsi. Felice naufrago in un dilemma che forse non potrà mai avere una soluzione del tutto razionale, ma che al contempo la trova proprio lì, nel fondo dei meandri dei sentimenti, in un’anta (non più) inchiodata, in un commosso «ciao papà» rimasto per troppi anni strozzato in fondo alla gola, oppure nel pianto liberatorio in risposta di un altrettanto straordinario Tommaso Ragno, unico altro attore professionista presente però solo come voce lontana, dolorosa e irriconoscibile fino ai titoli di coda, nella cornetta del telefono. È per questo che l’unico sostanziale controcampo del film, non a caso non “diretto” ma affidato allo schermo televisivo su cui verrà proiettato il filmino della comunione, arriverà solo nel prefinale di Luce a suggerire un’inevitabile circolarità della storia nel definitivo disvelamento dell’ossessione e dell’idea originaria, mentre la macchina da presa non distoglie praticamente mai lo sguardo da Marianna Fontana, la pedina, la scopre, in qualche modo la documenta nella realtà in cui si immerge fino a esserne parte concreta e tangibile. In fabbrica e nella vita, nei rapporti anche difficoltosi con i colleghi e nella più amara solitudine, nella quotidianità e nel dialetto, nella famiglia disfunzionale e in una mancanza impossibile da metabolizzare che ora diventa un dialogo sempre più fitto, sempre più (ma mai del tutto) esposto, sempre più (ma mai del tutto, perché sarebbe semplicemente impossibile e anzi dannoso raccontarsi a vicenda proprio in tutto il grigiore della vita) sincero. Fra fissazioni, tormenti e fiducia, ma anche fra momenti di incomprensione e incomunicabilità, a confrontare le rispettive solitudini, i rispettivi carceri, le rispettive depressioni, i rispettivi sensi di abbandono, i rispettivi amici che non esistono e i rispettivi cane e gatto che non ci sono più. E proprio lì, in qualche modo, ritrovarsi. Nella consapevolezza dell’insolubilità, di come sia impraticabile fugare realmente e a tutti i livelli ogni dubbio sul confine fra verità e recitazione, e di come non sia possibile restituire realmente un padre a una figlia che non lo ha quasi mai avuto, né una figlia a un padre. Elementi di un’evidente parabola di crescita autoriale che svetta sempre più in alto, e che definitivamente consacra Silvia Luzi e Luca Bellino, autori con il loro personalissimo metodo linguistico di un film umanissimo e radicale, tanto complesso nella realizzazione e nelle idee di messa in scena quanto stratificato negli assunti (e nella mancanza di possibili assunti) politici, filosofici, antropologici ed emotivi, fra i cineasti contemporanei più interessanti non solo in Italia.
Marco Romagna