LU BIAN YE CAN – KAILI BLUES (2015), di Bi Gan
C’è un preciso momento in Kaili Blues – misteriosa quanto affascinante opera prima presentata dal talentuoso regista cinese Bi Gan, classe 1989, nella sezione Cineasti del Presente – nel quale i concetti di spazio e tempo vengono totalmente annullati, mentre lo schermo si illumina di un infinito pianosequenza abbacinante ed ipnotico. Un flusso ininterrotto di quasi un’ora, nel quale i sensi vengono sconvolti e stravolti dalla forza misterica di una narrazione che smette di essere lineare. Torna mente per molti versi l’interessante Fish and Cat di Shahram Mokri, coraggiosissimo film iraniano visto in Orizzonti a Venezia 2013, ma dove il film di Mokri giocava -bene- con un pianosequenza derubato delle unità aristoteliche nel corso di una giornata, la seconda parte di Kaili Blues riesce ad allargare ulteriormente il campo d’interesse, trascinando il protagonista e lo spettatore in un luogo-non-luogo mistico e fatato, dove ieri e domani si fondono nell’oggi. Il passato, il presente e il futuro si intrecciano, rivelando la necessità degli uomini di completarsi a vicenda come unica via per l’infinito, fra sogni, concerti rock senza alcun talento dove il batterista sta davanti al frontman, negozi di orologi, corse in moto su strade polverose ed una musicassetta che viene da lontano.
La macchina da presa, dopo diversi minuti ad anticipare la motocicletta, trova una scorciatoia e lascia i soggetti inquadrati per scapiccolarsi giù da una stradina fra i palazzi, ritrovando solo successivamente, al ritorno sulla strada maestra, i personaggi per ricominciare a seguirli. Una soluzione registica che, al di là dell’innegabile apporto visivo, rivela un’originalità viva, pulsante, mai dimentica della funzione concettuale ed emotiva dell’immagine. Ma andiamo per ordine. Il film si apre nella cittadina di Kaili, esempio di una Cina ormai stanca dell’alone di solitudine che pare incorniciare ogni individuo. Chen Sheng, medico nel piccolo ospedale, decide di partire per un lungo viaggio in treno alla ricerca del bambino venduto, senza apparenti rimorsi, dal fratello, mentre l’altro medico della clinica, un’anziana e triste signora, gli chiede di portare al suo amato di un tempo una fotografia (l’istante che vince sul tempo), una camicia ed una musicassetta. Dall’altra parte, o forse nel passato, il bambino usa una casseruola per disegnare un orologio sul muro, simbolo di uno scorrere folle e incontrollabile, mentre il treno macina chilometri. Subito prima della meta, accolto da moticiclisti ed aspiranti guide turistiche, il dottore giunge nella misteriosa cittadina di Dangmai, dove il tempo è esperienza mistica, la Storia si cristallizza nell’istante, gli anni si annullano in virtù dell’oggi.
Dal momento dell’arrivo di Chen Sheng a Dangmai, comincia uno dei pianisequenza più potenti e necessari di sempre, flusso ininterrotto che si immerge dolcemente in un concetto di tempo che si fa sempre più claudicante e relativo. Dangmai è atemporalità, e al contempo assaggio di vita eterna. Ma è anche la coesione di un villaggio nel quale si vive rilassati ed ognuno aiuta il prossimo, in barba all’individualismo egoistico dal quale il resto del mondo, o quantomeno questa Cina, dovrebbe guarire. Dangmai è un sogno, e non è un caso l’importanza che viene data alla componente onirica. È un sogno quello che porta Chen Sheng a visitare la tomba materna e poi a decidere di partire, è un sogno quello della sua collega pronto a riportarle alla memoria il vecchio amore perduto, è un sogno il ricordo del protagonista dei tempi in carcere, come pure potrebbe essere un sogno l’intero pianosequenza, ma ci piace piuttosto perderci nelle sue voluttuose ellissi, e credere ciecamente che un mondo migliore sia possibile.
Kaili Blues è un esordio che già sa parlare con maturità di tempo, spazio, solitudine e rapporti umani. Girato con una perizia tecnica da tenere senza dubbio d’occhio, il film non dimentica né di essere significante, né di sperimentare strade nuove ed originali per esprimersi. Fra simbolismo e metafora, non privo di un certo fascino misterico, l’opera prima di Bi Gan si rivela come un oggetto filmico complesso e stratificato, onirico ed ammaliante, ambizioso e sincero. Non possiamo sapere come lo valuterà la giuria di Cineasti del Presente, presieduta da Julio Bressane, ma una cosa la sappiamo: Kaili Blues è un piccolo gioiellino, un film nel quale perdersi, riflettendo su quanto sia breve la nostra esistenza. E su quanto sia stupido sprecarla in solitudine.
Marco Romagna