LOVING VINCENT (2017), di Dorota Kobiela e Hugh Welchman

«L’arte è una bugia. Una bugia che ci mette in condizione di comprendere la realtà»
[Pablo Picasso]

 

In F come Falso (1973) di Orson Welles, il regista, attraverso il virtuosismo delle sue plateali menzogne, metteva in scena una specie di apologia della copia. Metteva in bocca a un personaggio reale, quello del nonno della giovane amante di Welles, Oja Kodar, parole che davano a lui un’aura fittizia: «Qual è il mio crimine, quello di compiere capolavori?». Trasformando il nonno della Kodar nel più grande falsario al mondo, che non era mai stato, Welles diventa egli stessi un falsario, il film stesso F come Falso diventava un’opera d’arte basata sulla bellezza del mentire, del costruire, del pontificare sopra il pre-esistente. In quest’ottica possiamo donare un nuovo significato a Loving Vincent, film di Dorota Kobiela e Hugh Welchman che è uscito nelle sale cinematografiche italiane come film-evento per il 16, il 17 e il 18 ottobre, programmando un ritorno sugli schermi il 20. È un film indefinibile, difficilmente descrivibile come un movimento di fotogrammi poiché ogni fotogramma di per sé nasce e muore dietro l’idea di un quadro, copiando lo stile di Van Gogh come in un tributo accorato. Si può considerare, quindi, un film d’animazione, e in questa categoria è assolutamente innovativo perché è il primo a essere completamente dipinto. Le transizioni e le dissolvenze, i riferimenti diretti alle opere preesistenti del pittore olandese, sono tutti creati attraverso un flusso magico, come facendo penetrare lo spettatore in un afflato onirico e liquido, come le tempere e gli acquerelli. Il budget del film, che gira attorno ai 5 milioni di dollari raccolti attraverso anni di crowdfunding con la piattaforma Kickstarter, sempre più importante in ambito cinematografico a partire da The Canyons (2013) di Schrader. Le figure umane sono rese realistiche attraverso l’effetto del rotoscopio, che crea le forme ricalcando direttamente sui volti in movimento di attori, istante per istante, immagine per immagine. Il cast include, tra gli altri, Jerome Flynn (cantante e attore britannico noto principalmente per Il trono di spade), Saoirse Ronan e il grande comico irlandese Chris O’Dowd (protagonista della sit-com britannica The I.T. Crowd). Loving Vincent passa costantemente da immagini a colori a immagini più realistiche in bianco e nero, incrociando due piani temporali e due piani di realtà differenti, quello di una percezione astratta del presente (il colore) e quella di una più nitida versione espressionista del passato (il bianco e nero). La narrazione del film, difatti, prende l’originale decisione di non trattare la straziante biografia di Van Gogh in senso stretto, bensì prediligendo come protagonista Armand Poulin, figlio di un postino amico stretto del pittore e soggetto di alcuni ritratti di Vincent, e seguendolo durante eventi che avvengono un anno dopo il suicidio dell’artista. Diventa quasi una specie di storia di indagine, con Armand che interroga ogni persona che conosce chiedendo sostanzialmente: «Chi è Van Gogh? Cos’hai tu da dirmi, seguendo la tua esperienza personale, sul folle pittore olandese che conoscevo troppo poco?». È una lenta e graduale ri-scoperta dell’artista attraverso la sua umanità, i suoi trascorsi, i suoi momenti più tristi e tragici. Van Gogh ha avuto una vita che, nelle sue evidenti esplosioni di follia, era a suo modo un’opera d’arte a sé, un commento imprescindibile e necessario anche per la comprensione dei suoi dipinti, ed è attraverso quest’osmosi che Loving Vincent prende forma, trasformando la scenografia del mondo di Van Gogh e del mondo lasciato da Van Gogh in un mondo che è, esso stesso, un costante quadro di Van Gogh.

Prendendo ispirazione dalle lettere che il pittore scriveva al fratello Theo («Loving, Vincent» era la chiusura di fine missiva), il film si pone a metà tra due dei più accorati tributi all’artista presenti nella storia della narrazione audiovisiva, sia qualitativamente che tematicamente: ci riferiamo allo spezzone dedicato a lui nell’immane Sogni (1990) di Kurosawa, con Van Gogh interpretato da Martin Scorsese, e alla puntata “Vincent and the Doctor” (2010) della serie fantascientifica britannica Doctor Who (1963-in corso). Da una parte Kurosawa, attraverso il segmento del suo capolavoro, raccontava un collegamento tra l’arte e l’estetica del sogno, mettendoci di mezzo i propri sentimenti autobiografici e la passione innata di Van Gogh per l’arte nipponica; dall’altra, invece, Doctor Who, in uno dei suoi momenti più emotivi, densi e cinematografici, inseriva attraverso la sceneggiatura di Richard Curtis l’escamotage del viaggio nel tempo per dare la breve e fugace opportunità a Van Gogh di scoprire nel presente che la sua opera artistica non è destinata all’inutilità ma alla memoria, all’assoluto, in un tentativo (poi fallito) di cambiare il suo destino. Ma rimaneva la commozione struggente del mettere in scena un qualcosa di assolutamente impossibile per donare una gloria estemporanea a un uomo che ha vissuto nell’ombra del proprio Io e di un mondo che non lo accettava. Insomma, Kurosawa ha usato l’arte per dimostrare interesse nei confronti dell’uomo (se stesso), mentre Doctor Who ha usato una narrativa convenzionale per dimostrare passione nei confronti di un’ingiustizia. L’ingiustizia della vita vissuta da Van Gogh, che si considerava derelitto e ultimo tra gli ultimi per come la propria arte non era accettata nel mondo, nemmeno da se stesso, al massimo soltanto dal Dr. Gauchet. Loving Vincent prosegue in direzione di un discorso che mischia i due appena citati, ma portando alle estreme conseguenze l’uomo dentro il quadro di Sogni: anche l’uomo diventa padre del quadro, diventa il quadro. E solo attraverso quest’indagine, questa scoperta dell’uomo che vive nel bianco e nero di sé stesso, l’uomo può vivere, Van Gogh può tornare a colori, l’opera d’arte rimane nonostante l’artista non sia più presente nel nostro mondo – come nel finale di Andrej Rublëv (1966), se vogliamo. Non è più un discorso sul far vivere l’arte attraverso l’uomo o viceversa: Loving Vincent si basa sull’entrare nell’arte, per creare arte, copiare arte, dare dignità all’arte e alla copia dell’arte. L’uomo arriva alla fine, nel senso che resuscita e trova il proprio spazio definitivo nell’organismo, ma è sempre in sottofondo, è sempre lì, che osserva, come i quadri di National Gallery (2014) di Wiseman che vivono osservando i visitatori del museo.

Il grande problema del discorrere di cinema oggigiorno consiste probabilmente nel fatto che i tecnicismi sono diventati troppo facili da riconoscere e da discutere, al punto che sembra sempre di più che manchi un po’ il cuore. Il cuore del capire che un’opera d’arte è un’opera d’arte a prescindere dalle sue origini e dal suo contesto, e che bisogna sempre ricercare l’intensità e la ricerca emozionale interna, l’anima anche della più umile sciocchezza. È come se ci si dimenticasse della lezione sulla critica che diede Anton Ego in Ratatouille. Non dovrebbe essere difficile arrivare a capire che Loving Vincent è un film davvero rivoluzionario da un punto di vista tecnico, e non dovrebbe essere difficile neanche giungere alla conclusione che la narrazione è un pretesto per arrivare al concetto del rapporto tra uomo, arte e ricordo/memoria dell’uomo e della sua arte – e non è una narrazione invasiva. Elucubrare giudizi sui difetti di scrittura, su problematiche morali o sul ritmo di Loving Vincent significa semplicemente non esserci entrati dentro, e quello è un problema dello spettatore e non degli artisti (siano essi Van Gogh, i registi, i pittori, gli animatori…). E non è neanche un problema legato all’apprezzare o no l’eredità artistica e le capacità compositive di Van Gogh, che può sicuramente piacere o non piacere, perché la sua arte rimane comunque un’esplosione emotiva, e anche la sua replica lo è, solo che non lo è nella direzione dell’emotività degli autori quanto nella direzione dell’emotività di Van Gogh, quasi espandendo la sua opera quasi un secolo e mezzo dopo la sua morte. Gli sguardi e i sogni dell’anima guardano le stelle che passano, e il cuore, gli occhi, la mente rimangono al centro. Tutto può essere arte, tutto può essere bellezza. Permane la sensazione della grandezza, semplice e pura, e dell’intensità di un qualcosa forse di irripetibile, sicuramente di densissimo e importantissimo, tra la melanconia e la follia.

Nicola Settis